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Editoriali NBA

5 on 5: Un tuffo nel 2014, uno sguardo al 2015 NBA

Chiamatemi privilegiato, se volete, ma la settimana bianca per me è il must di fine dicembre. Nel pieno delle vacanze natalizie, possibilmente a cavallo tra S. Stefano e Capodanno: tavola da snowboard sotto braccio, qualche amico rider e il Cervino che fa da cornice ideale. Di solito, questi pochi giorni di quiete, corrispondono con l’immancabile bilancio di fine anno: cosa ho combinato di buono? Quali obiettivi pormi per il prossimo anno? In verità, queste riflessioni, se durano più di 5 minuti è già tanto. Perché un conto è sapersi organizzare, un altro è prefissare anzitempo una lista di buoni propositi per fare dell’anno nuovo, l’anno della svolta.

E’ un giochino che mi procura soltanto l’emicrania. E con il tempo ho deciso di bypassare questo rito. Tuttavia, per quest’anno, mi è venuta l’idea di rispolverare lo stesso giochino cambiando focus, circoscrivendolo al mondo NBA. Con la collaborazione di Emiliano Tolusso* , ho isolato i cinque momenti più significati del 2014 e cinque auspici per il 2015. Let’s go.

2014

IL CASO STERLING

Per quella registrazione audio pubblicata dal sito di gossip TMZ, Donald Sterling ha perso la poltrona di proprietario dei Los Angeles Clippers. La vicenda è nota ai più, nella telefonata si sente Sterling chiedere alla sua compagna di non farsi fotografare insieme a dei neri e di non portarli alle sue partite( dove per neri, intendeva, tra le righe, anche un certo Magic Johnson). Sulla scia di questi commenti, si è sollevata un’ondata unanime di indignazione, a tratti eccessiva, come ha voluto rimarcare il buon Kareem. Tempestiva è stata la decisione del neo-commisioner Adam Silver, che con una maggioranza ottenuta di 29 dirigenze NBA su 30, ha bandito a vita Sterling dalla lega. Un po’ più lungo l’iter giudiziario, concluso a fine luglio grazie alla causa vinta da Shelly Stering, la moglie, che è riuscita a vendere la franchigia a 2 miliardi di dollari a Steve Ballmer, ex CEO di Microsoft.

ONE IN A MILION

4 prime scelte negli ultimi 11 anni, quella del 2014 aveva l’1.4% di probabilità di uscire alla numero uno. C’è chi ha gridato all’imbroglio, nell’estate in cui Lebron avrebbe potuto non esercitare la player option e sondare la free agency, ottenere la prima scelta sarebbe stato l’incentivo perfetto per il ritorno in Ohio. Questa, la teoria complottista. Nella pratica, trattasi di caso, seppur clamoroso. Quindi ricapitolando: Lebron, Kyrie, Bennett e Wiggins. Il primo è tornato, per portare a termine ciò che aveva quasi compiuto nel 2007, arrivando in finale contro gli Spurs con una banda disorganizzata di compagni. Il secondo dovrebbe rappresentare il futuro della franchigia, ma è ancora in cerca di una dimensione, non facile da trovare convivendo con il primo. il terzo e il quarto sono diventati due pedine di scambio per ottenere Kevin Love.

HOME( NOT SO SWEET) HOME

All’ Opt-out dal contratto con gli Heat, è seguita la letterina a Sports Illustrated contenente tre messaggi cruciali:
-Il Northeast Ohio è e rimarrà casa sua
-Miami è stato come il college che non ha mai fatto
i’m back home.

Per come è uscita a livello mediatico, la decision 2.0 è stata accolta con maggiore benevolenza rispetto allo speciale di quattro anni prima, in cui Lebron annunciava in diretta TV su ESPN di voler portare i suoi talenti a South Beach. In primis, per la scelta del mezzo: la lettera è più confidenziale e ha un destinatario specifico. Seconda aspetto, il linguaggio: diretto, privo di sovrastrutture, da cui implicitamente si avverte un velo di scuse.

I tifosi tornano ad indossare il 23 bruciacchiato, ma nel momento in cui scrivo, la stagione dei Cavs sembra ancora indecifrabile. Fino a due settimane fa, apparivano come una delle squadre più in forma, dopo una striscia di otto vittorie consecutive, il mini crollo. 5 sconfitte nelle ultime 10 gare, complici gli infortuni di Varejao( out per l’intera stagione) e Irving (che ha saltato le ultime 2). Tra gli insucessi, il più recente contro Detroit: 23 punti concessi e record di triple segnate nella storia dei Pistons. Gli oltre 105 punti subiti per 100 possessi a partita( 23° nella lega per defensive efficiency)la dicono lunga anche sui difetti nella propria metà campo. A ritmo ondivago, i Cavs rimangono lo stesso a quota playoff, quinti ad est.

THE ELDER THE BETTER

Dirk&Kobe, Kobe&Dirk. Scalatori nella classifica dei marcatori all time, fenomeni senza tempo che sanno adattare il proprio gioco alle esigenze di un fisico sempre più logoro senza mai smettere di scrivere pagine di storia. Kobe supera sua maestà MJ per il podio, Dirk sorpassa di recente Elvin Hayes e punta Moses. Assieme a Tim Duncan restano il lascito più fulgido del primo decennio del XXI secolo, testimonianza vivente di un basket per certi versi differente, patrimoni del Gioco. Eppure così diversi nell’intendere il proprio ruolo, il modo di condurre una squadra, il modo di intendere la pallacanestro stessa.

Dirk guida una squadra da titolo. Ha sacrificato milioni sull’altare dei Mavericks per poter lottare per un altro anello, si è messo da parte, perlomeno a livello economico, perché potesse venire attorniato da talento a sufficienza per vincere. Dirk si gestisce durante la stagione, ha minutaggio controllato, distilla ogni goccia di talento misurando lo sforzo, si preserva in un invecchiamento consapevole ed autoconservativo, Dirk tiene il profilo basso di chi aspetta.

Kobe vive e muore al centro. Del (non-)progetto tecnico, dei riflettori, delle polemiche. Kobe non fa sacrifici economici, Kobe non conosce umiltà, non conosce altro che il suo modo di fare le cose. Kobe è egoista e competitivo fino all’eccesso. I Lakers perdono per manifesta inferiorità e Kobe incarna il suo suo io del biennio 2005-2007, con l’evidente differenza di un fisico che inizia a chiedere il conto. Kobe invecchia, consapevole quanto Dirk, ma con lo spirito del campione integro ed incorruttibile rispetto al proprio credo, che cade sul campo di battaglia facendo ciò che ha sempre fatto. Segnare, lottare, dividere.

Kobe&Dirk, Dirk&Kobe. Percorrono strade diverse, ma si incontreranno dalle parti di Springfield.

GIMME JUST A RAJON

Nel Blockbuster deal dell’ultima ora, i Celtics cedono Rajon Rondo ed il Rookie Dwight Powell ai Mavericks in cambio di Brendan Wright, Jameer Nelson, Jae Crowder, una prima scelta nel draft 2015 ed una seconda nel 2016. Di fatto, Ainge archivia gli ultimi ricordi dell’era Doc Rivers in cambio di scelte al draft e buoni comprimari, probabilmente pronti ad ulteriori scambi per ottenere nuove scelte. I Celtics decostruiscono nella speranza di ricostruire, ma di fatto oggi si trovano vittime del deprezzamento di Rondo a seguito del grave infortunio e della concorrenza ultracompetitiva nel ruolo. Si è ottenuto troppo poco dalla trade Rondo? Probabilmente si. Boston accumula giovani per arrivare a trovarsi in una situazione comparabile a quella dei Rockets pre-Harden, ma la sensazione di navigare a vista inizia a farsi largo nel tifo bianco-verde.

Dallas aggiunge Rondo ad un equazione che funziona, e bene. Potrebbe essere un upgrade. Potrebbe essere un fallimento. Il neo playmaker dei texani si porta dietro un bagaglio di limiti già ampiamente conosciuti, sia sotto il profilo tecnico (continuità al tiro, intensità difensiva scarsa, attitudine pessima nelle sue ultime prestazioni) che sotto il profilo caratteriale, ma il dubbio più grande riguarda gli equilibri offensivi. Dallas è l’attacco più brillante della NBA odierna e basa il proprio successo sulla circolazione di palla. Introdurre Rondo significa integrare in un sistema di circolazione veloce un giocatore abituato ad una gestione privilegiata del pallone. E’ una scommessa, perché il talento di Rajon imbrigliato in un sistema di trasmissione simile è un lusso per pochi, ma il rischio resta alto perché si pone una superstar altamente condizionante all’interno di un sistema dotato di un equilibrio proprio. Saranno necessari adattamenti da parte di tutto il contesto e che tutti sposino il progetto. Il rischio è alto, la curiosità anche maggiore.

 

Propositi 2015

 

(TOO) LONG WAY TO HEAVEN

Gli infortuni non fanno prigionieri nella NBA di oggi. E’ l’evoluzione del gioco, più atletico, più dispendioso, con regimi di preparazione oggi in grado di creare atleti probabilmente mai visti. Il rovescio della medaglia è che lo stesso sistema pone i propri protagonisti in una situazione di rischio infortuni sempre più alto, soprattutto ove si affronti una stagione lunga ai limiti dell’estenuante. Scavando nel necrologio cestistico degli ultimi due anni i nomi illustri si sprecano. Rose, Bryant, Rondo, Gallinari ed una lista potenzialmente ben più lunga. Persino la formazione delle giovani stelle è sempre più costellata da infortuni più o meno gravi. Noel, Embiid e Jabari Parker -escludendo Randle il cui infortunio è per dinamica irreplicabile- ultime vittime di season ending injuries, talvolta persino prima di cominciare.

Il problema è oggettivo e la qualità del prodotto ne è ovviamente inficiata. L’ovvia soluzione, la riduzione delle partite a calendario, è anche -paradossalmente- impraticabile. Proprietari e giocatori concordano probabilmente su un solo punto: la lunghezza della stagione non si tocca. Accorciarla significherebbe meno introiti per i proprietari e di riflesso per i giocatori stessi. Per questo nascono le -fantasiose- soluzioni alternative. Dall’esperimento partite da 44 minuti anziché 48 alla più recente proposta di accorciare la preseason per poter spalmare le 82 partite di regular su una decina di giorni in più. Posta la dubbia credibilità della prima (se Durant gioca 38 minuti anziché 40 per lo stesso numero di partite rischia di meno?) resta interessante la seconda ipotesi, che allungherebbe i tempi di recupero per gli atleti. La vittima di turno? I coach, che vedrebbero accorciarsi il periodo dedicato all’allenamento della propria squadra, già risicato durante i rigori di una stagione divisa in parti uguali tra tempo speso sul parquet per gare ufficiali ed in aereo.
Resta un argomento delicato, per cui senza dubbio è interesse di tutti provvedere in qualche modo.

IN SEARCH OF BALANCE

Equilibrio. Se la natura ci insegna qualcosa è che una situazione di equilibrio è di rado statica. L’NBA non fa eccezione e la distribuzione di forze tra la due Conference ne è testimonianza. La memoria storica ci suggerisce infatti che il basket pro americano vive di cicli, di squilibri che tendono a riequilibrarsi, talvolta di colpo, talvolta con anni di transizione. Oggi più che mai probabilmente viviamo in una situazione di quasi completo sbilanciamento, con una Western Conference imbottita di pesi massimi, contro una Eastern quasi a digiuno, eccezion fatta per tre o quattro compagini in grado di reggere il paragone.

Da tempo si discute di un riallineamento, una modifica della griglia playoffs che premi le squadre migliori dell’intera lega, e non delle due Conference trattate in maniera separata. Sarebbe una riforma utile? Una riforma in tal senso meritocratica è necessariamente un bene per la NBA? Forse sì, eppure inizia a levarsi qualche voce di dissenso. La costa ovest è oggi ciò che più si avvicina alla lega perfetta. Di tutte le prime otto (switch tra Phoenix ed OKC, of course), non una sola squadra non vanta chances credibili di titolo. E’ un’anomalia anche per una lega abituata a dei rapporti di forza non proporzionati tra le sue due Conference e crea uno squilibrio oggettivamente fastidioso per certi versi. Ma la Western resta una piccola superlega a sé stante che esprime quotidianamente il meglio che questo sport possa offrire. Riequilibrare il talento significa anche diluirlo, ripensare gli slot per i playoff significa abbassare l’adrenalina e la competizione in un’arena selvaggia. La Western Conference oggi è un patrimonio mondiale del Gioco. Lunga vita alla Western Conference.

 

GLOBAL GAMES

Il passaggio di testimone da Stern a Silver nel ruolo di commisioner rafforzerà il lavoro cominciato dal primo nell’estensione dei confini NBA al di fuori del territorio statunitense. Al 36° anniversario dalla prima partita NBA disputata all’estero, sono 22 i diversi paesi toccati dalla lega. L’ultimo incontro fuori dal perimetro a stelle e strisce si è tenuto  il 12 novembre 2014 a Città del Messico, una vittoria di largo vantaggio dei Rockets sui Timberwolves.  Il prossimo si terrà questo 15 gennaio,  alla O2 arena di Londra, dove andrà in scena Milwaukee-New York.

I giocatori stranieri presenti nella NBA sono 101. Una lega dal sapore sempre più internazionale. Le voci di possibili expansion team oltreoceano sono tutte rincondubili alla fantascienza, per ora. Si è accennato ad una division europea, che potrebbe sorgere tra non meno di 20 anni. Il nostro ben più modesto auspicio è di poter vedere l’Italia come palcoscenico di una partita di regular season NBA.

 

DRAFT LOTTERY: LA RIFORMA CHE NON VEDRA'(PER IL MOMENTO) LUCE

Nemico numero uno della riforma: il tanking selvaggio. Nuovo regolamento: affidare alle quattro squadre vincitrici( non più 3) della lottery le stesse chance di ottenere la prima scelta, il 12%. Obiettivo principale: scoraggiare strategie come quella di Sam Hinkie, GM dei Sixers, già al secondo anno di rebuilding mode, che consegna alle scelte dell’estate successiva le speranze di un’intera stagione agonistica. Perdere per candidarsi alla lottery per tornare a vincere va contro lo spirito dello sport che impone agli atleti il dovere di competere in ogni occasione. Nonostante tutte le buone intenzione e una maggioranza di addetti ai lavori entusiasta, la proposta è stata bocciata. Sarebbe passata se avesse ottenuto almeno 23 voti, proprio 23 è il numero di squadre che ha detto no alla riforma. Influenzate, probabilmente, dalle perplessità che Sam Presti ( GM dei Thunder) ha agitato sulla scena, sostenendo che diminuire le tutele per le squadre più perdenti avrebbe finito per danneggiare i piccoli mercati. Ma, arrivando al sodo, questo tanking paga davvero?

Le statistiche dicono di no: tra il 1990 ed il 2014, la franchigia con il peggior record dell’anno ha ottenuto la prima scelta soltanto in 3 occasioni. Vero è che il tanking si attua per ottenere la più alta scelta possibile, non unicamente per acchiappare la numero uno. E se da una parte la competitività viene lesa a più ripetizioni, dall’altra c’è ancora un netto disequilibrio tra grandi e piccoli mercati, che per il momento inducono i secondi a negare la proposta di una draft lottery meno discriminante sui record di squadra. La strada più giusta? Passoparola.

ONCE AGAIN

Gli Spurs e la finale NBA 2015. Un matrimonio da celebrare? Difficile da prevedere a questo punto della stagione, nonostante un bel pezzo di cuore speri di rivivere un’altra cavalcata.

Le ragioni per non credere. Una concorrenza spietata all’interno della propria Conference, tanti progetti e visioni alternative del Gioco, talvolta in cerca di sbocciare per la prima volta, come per gli Warriors o i Grizzlies. Oppure la preoccupazione verso la cattiva situazione degli infortuni in casa Spurs, che faticano a preservare la salute dei propri uomini chiave, Parker e Leonard su tutti, aggravata anche dal peso di due cavalcate playoff lunghe e combattute sulle spalle di atleti ultratrentenni. Se le difficoltà degli uomini chiave vengono di solito compensate dai comprimari, questa prima parte di stagione ha visto infortuni importanti anche per il cast di supporto, con il caso di Mills su tutti. Per gli Spurs è vitale poter gestire i propri sforzi durante la Regular Season per arrivare al meglio ai Playoff. Questa stagione non sta, finora, facendo il loro gioco.

Le ragioni per credere. Gli Spurs giocano letteralmente a memoria e da due anni non perdono in una serie che non contempli miracoli di Ray Allen. Se dovessero ritrovare tutti i propri uomini chiave al momento giusto diventerebbero un incubo per qualsiasi avversario, anche con un piazzamento basso durante la stagione. Ed infine coach Pop. I playoffs sono un gioco basato sugli accoppiamenti (non fraintendete), sulle capacità di giocare sulle debolezze dell’altro mascherando le proprie. Tra tutti i coach nella Western, solo Carlisle ha dimostrato di poter giocarsi una partita a scacchi con lui. Stotts, Kerr, Joerger. In attesa di giudizio. Doc Rivers non si è mai seduto allo stesso tavolo. Si offende qualcuno se non cito McHale? Avanti il prossimo.

* Il 50% di ciò che leggete è da attribuire a lui. Ha il 100% del merito, invece, per essersi reso disponibile- destreggiandosi tra Milano e Svizzera- nella stesura di questo articolo.

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