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Editoriali NBA

El Viaje Espanol: Angola

Angola campione d’Africa 2013

Iniziamo la nostra carrellata tra le underdogs del mondiale spagnolo ormai alle porte. In questo progetto daremo spazio alle cenerentole della palla a spicchi, a quelle nazioni raramente sotto l’occhio di bue e, nel bene o nel male, distanti anni luce dal basket hollywoodiano.

Il primo viaggio è nella terra nera. L’Angola è un’oasi del basket africano: in uno Stato attanagliato da tremendi problemi umani e sociali, il “basquetbol” sembra essere l’unico motivo per sorridere. Lo diceva già Victorino Cunha, un’istituzione da quelle parti. Un vero e proprio santone capace d’animare e rendere grande il movimento cestistico angolano fin dalle sue radici.

Victorino Cunha

25 luglio 1992. La notte di Barcellona ribolle d’attesa. Cunha si muove come un flipper impazzito nella sua angusta stanza “La transizione di Magic, l’arresto e tiro di Bird…”. Il pensiero è fisso al collega e rivale Daly, “Chissà se anche lui non riesce a dormire, chissà se anche la sua finestra dà su un muro.”. È la vigilia di Angola-Usa, prima partita della spedizione spagnola di quello che passerà alla storia come Dream Team. Per gli Stati Uniti una partita come tante, forti del loro immenso talento; per gli angolani l’apice d’un sogno iniziato quindici anni prima in una nebbiosa Sofia, al loro esordio internazionale contro i burberi bulgari. Torna lì la mente di Cunha, a quel -78, a quei venti ragazzi scelti forzatamente, unici rimasti dalla diaspora che aveva portato i più talentuosi a fuggire in Portogallo, lontano dalla guerra civile. Una sconfitta così pesante non si ripeterà più nella storia angolana. Successo dopo successo, dominio dopo dominio, ad oggi la Federação Angolana vanta 16 medaglia su 18 apparizioni nella Coppa D’Africa (di cui ben 11 ori). Una dinastia costruita tra mille problemi, basti pensare che a metà anni ’90 solo due squadre della massima serie potevano vantare una palestra. La sfida con gli States fu ovviamente a senso unico: nessun disonore però per i ragazzi di Cunha. Dimostrarono che pur senza contratti milionari ed un massimo di 200 dollari mensili, sì, si poteva calcare lo stesso parquet delle stelle senza bisogno di guardare troppo in alto.

Paulo Macedo

Nietzsche lo definiva “Eterno ritorno”, a Luanda preferiscono chiamarla “Teoria dell’eterno Cunha”. Corsi e ricorsi, storici e sportivi: ventidue anni dopo ancora la Spagna ad ospitare una competizione internazionale con l’Angola protagonista. Sulla panchina non siede più il padre fondatore, ma un fidato discepolo, Paulo Macedo, un leone protagonista in campo nel 1992. Nessuno dell’attuale roster gioca al di fuori della terra nativa, anzi, la stragrande maggioranza, addirittura, appartiene ad una singola squadra: il Primeiro de Agosto. Lo stesso Primeiro de Agosto, allenato da Cunha per vari anni, ha deciso di omaggiare l’eterno mentore intitolandogli il palazzetto. In quest’edizione dei mondiali l’Angola può sognare in grande, complice un girone sulla carta abbordabile, dove oltre alle potenze europee Lituania e Slovenia, figurano Corea del Sud, Messico e Australia.

Carlos Morais

Guidati dal talento offensivo di un maturo Carlos Morais, shooting guard nominata MVP dell’ultima edizione dei campionati africani, gli angolani potranno attentare ad uno storico passaggio del turno. Una squadra dall’età media avanzata, tra i centri spicca Valdelicio Joaquim, reduce dalla grande opportunità oltreoceano con Hawaii University, dove ha quasi toccato la doppia doppia di media (punti e rimbalzi), mettendo in luce un potenziale non banale. A rubare minuti al giovane talento dell’Atletico Petroleos, sono però le due ali grandi Reggie Moore ed Eduardo Mingas, entrambi efficaci sotto le plance. Nota di colore per “Kikas” Gomes e le sue treccine, tanto pittoresco quanto apprezzato in patria.

Certamente non sarà questo l’anno in cui l’Angola vincerà il mondiale, ma come dicono i saggi di quelle parti: “Non c’è un solo giorno, anche domani il sole brillerà”.

 

Michelangelo Mion & Gianmarco Pacione

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