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Editoriali NBA

Lakers, anno zero. Di nuovo

Era il 10 agosto 2012 quando gli Orlando Magic annunciavano al mondo di aver trovato un accordo per accontentare la propria bizzosa stella Dwight Howard e fargli cambiare aria, come da lui richiesto. Considerato all’epoca il lungo più dominante della Lega, il neo GM Rob Henningan pensò bene di mandarlo il più possibile lontano dalla Florida, optando per quella California che l’aveva fortemente voluto per tornare a lottare per il titolo: i Los Angeles Lakers infatti, già forti dei vari World Peace, Gasol e ovviamente Bryant, aggiungevano dunque Superman a una lista della spesa estiva che già comprendeva Steve Nash, andando a formare un quintetto che nei progetti societari avrebbe dovuto mettere il fatidico sesto anello alle dita di Kobe senza nemmeno sudare troppo.

L’unico divertimento alla fine fu fare ironia sulla copertina di Sports Illustrated

Non sono passati nemmeno due anni da allora e sembra di parlare di un’altra era geologica. Il progetto di questi novelli Fab Four angeleni, come si sa, è velocemente naufragato tra difficoltà gestionali, cali di rendimento fisiologici, scelte tecniche discutibili corrette da decisioni societarie se possibile ancor più deleterie (sì, stiamo proprio parlando del, o meglio degli, allenatori) e soprattutto infortuni (specificare a chi ci si riferisca qui pare invece superfluo). Poi la Dwightmare diventata Nightmare a El Segundo, la rinnovata fiducia a un allenatore palesemente inadatto per questo tipo di squadra come D’Antoni, altri infortuni (sempre l’allusione superflua di cui sopra), fino ad arrivare a una stagione appena conclusa talmente deludente da inserire a un certo punto la prima franchigia di L.A. nel campionato parallelo delle tankeggiatrici seriali.

 

Insomma, in un anno e mezzo la seconda franchigia NBA per titoli vinti è passata da essere considerata una, forse la principale, contender per il Larry O’Brien a sperare quasi di perdere per poter scegliere meglio al Draft, visto che ormai anche solo i playoff erano un miraggio lontanissimo. Roba da far impallidire i Bulls tra ’98 e ’99, solo che in questo caso, seppur molto spesso in borghese, la star era ancora al suo posto: quel Kobe Bryant che, nonostante le dichiarazioni di facciata, parrebbe sempre più frustrato dalla gestione dell’ormai celeberrimo duo alla guida dirigenziale dei suoi Lakers. E non potrebbe essere altrimenti, visto che anche in questa off season, che nei piani di Mitch Kupchak e Jim Buss (rispettivamente GM e co-proprietario con funzioni esecutive del team, nonché famigerato duo di cui sopra) doveva essere quella della rinascita, le cose non sono andate come sperato e hanno portato i Lakers a un mercato di ripiego, piuttosto strano, per certi versi poco spiegabile. Con la conseguenza che per quel fatidico sesto anello se ne riparla a data da destinarsi. Come se Kobe avesse ancora chissà quante stagioni da giocare…

 

La turbolenta estate dei Lakers, per la verità, non era iniziata poi tanto male. Silurato D’Antoni quasi il giorno dopo la fine della stagione, con l’approvazione sostanzialmente unanime di tifoseria e addetti ai lavori (e fin qui, non che ci volesse moltissimo), dopo i playoff visti comodamente in TV e la Lotteria che portava in dote la scelta numero 7 (la più probabile, per provare l’assalto alla 1 serviva l’ormai proverbiale fortuna, più che degli irlandesi, dell’Ohio), anche il Draft sembrava andato bene, con l’arrivo di uno dei giocatori più “pronto uso” dell’annata, fino a poco tempo prima auspicato molto più in alto, come Julius Randle. Poi da luglio prendeva il via il mercato dei free agent, cui i Lakers guardavano con un certo interesse, avendo moltissimo spazio salariale da investire per provare l’assalto a qualche big da affiancare a Bryant: il cap gialloviola vedeva infatti a contratto certo per la prossima stagione solo il nuovo contrattone del 24 (quasi altrettanti milioni rispetto al proprio numero di maglia), l’accordo al minimo di Robert Sacre e la zavorra dell’ultimo anno di Steve Nash, una volta naufragate le ipotesi di ritiro prima e di dilatazione contrattuale poi, per un totale di circa 30 milioni da utilizzare sul mercato, che avrebbero idealmente potuto consentire l’arrivo anche di più di un giocatore di prima fascia.

 

Fino a poco tempo fa, una franchigia del genere era un po’ come Hugh Hefner, peraltro suo esimio concittadino: non aveva cioè mai avuto grossi problemi a mettere a segno colpacci. Da Wilt a Kareem, fino ad arrivare a Shaq nei ’90, tutti avevano ceduto al fascino e al prestigio della Città degli Angeli come le conigliette a quello del fondatore di Playboy. E anche quest’estate la storia sembrava potersi ripetere, con importanti sondaggi effettuati addirittura con Lebron James e soprattutto con Carmelo Anthony, a un certo punto vicinissimo ai gialloviola: insomma, vere e proprie playmate of the year all’interno del panorama NBA.

Il sogno…

Purtroppo per i tantissimi tifosi angeleni sparsi per il mondo, questi possibili matrimoni da favola si sono rivelati semplici flirt estivi. Il terremoto è stato avviato proprio da Lebron con il suo coming home, che ha generato un effetto domino tra i principali big: anche senza più James, Chris Bosh ha rinnovato a cifre folli con gli Heat, seguito a ruota da Dwyane Wade. Melo, l’obiettivo forse più cercato e più vicino, ha scelto di sposare il nuovo progetto dei suoi Knicks, messo in piedi, ironia della sorte, proprio da due pietre miliari della storia dei Lakers come Phil Jackson e Derek Fisher. Anche free agent di minor appeal e richiamo, come Lance Stephenson e Kyle Lowry, hanno snobbato i Lakers; persino una bandiera come Pau Gasol ha rifiutato un sostanzioso rinnovo offertogli in extremis. Insomma, neanche le tradizionali armi di seduzione dei Lakers (prestigio, tradizione, un’altra superstar in squadra come il Mamba, enormi possibilità economiche/pubblicitarie offerte da una città come L.A.) non hanno potuto molto di fronte a una credibilità, del front office in primis ma dell’intera organizzazione in generale, ormai evidentemente ridotta ai minimi storici.

 

E allora questi 30 milioni come li spendiamo, visto che per regolamento almeno 52 vanno messi a libro paga? Avuta la certezza di aver perso Lebron e probabilmente ormai consapevoli anche delle intenzioni di Melo, il duo non ha perso tempo e nel giorno stesso della Decision 2.0 ha piazzato due colpi, se tali si possono definire l’approdo di Jeremy Lin, arrivato sostanzialmente per nulla da una Houston che puntava solo a liberarsi del suo contratto, e il rinnovo a cifre “generose”, per usare un eufemismo, offerto a Jordan Hill (biennale da 18 milioni, guadagnerà più di Nowitzki…) e da lui prontamente firmato. Il roster è stato poi completato sostanzialmente con la stessa squadra che tanto bene aveva fatto la passata stagione: ecco allora, dopo Hill, i ritorni di Nick Young (comunque uno dei più talentuosi e positivi), Wesley Johnson, Xavier Henry, Ryan Kelly, a cui si aggiungono le facce nuove di Ed Davis, la seconda scelta Jordan Clarkson e soprattutto Carlos Boozer, amnistiato dai Bulls e portato a casa tutto sommato a cifre modeste (è bastato un annuale da 3.2 milioni per vincere l’asta, evidentemente non certo selvaggia, che per regolamento segue al taglio via amnesty). Ciliegina sulla torta, l’ufficializzazione del nome più probabile, ma non certo di grido, per la panchina: quel Byron Scott il cui lungo inseguimento è parso più un sintomo di non completa fiducia che una reale difficoltà nella trattativa.

… e il risveglio

Un mercato insomma piuttosto deludente soprattutto per le attese dei supporters, che ha portato i Lakers a presentarsi ai nastri di partenza, al momento di scrivere, se possibile addirittura indeboliti rispetto alla passata stagione, visto l’addio di Pau Gasol. Ma che, nonostante le apparenze, un minimo di senso potrebbe averlo, a dispetto di alcuni movimenti dell’accoppiata Kupchak-Buss francamente enigmatici.

 

Le mosse dei Lakers infatti assumono connotati più sensati se si analizzano più nel dettaglio i vari contratti dei giocatori. Henry e Johnson hanno rinnovato per un solo anno, così come Boozer, come detto, mentre Ed Davis ha una player option per la prossima stagione: se non la userà sarà anch’egli free agent. Tra i contratti di maggior spessore, il neo acquisto Jeremy Lin, oltre agli enormi introiti di marketing derivanti dalla grossa minoranza asiatica in California e dal mercato orientale in generale, porta in dote un contratto da oltre 8 milioni giunto però all’ultimo anno. Anche il contratto-zavorra di Nash, da quasi 10 milioni, andrà in scadenza nel prossimo giugno; particolare invece l’accordo con Jordan Hill, apparentemente come detto spropositato, ma che presenta una team option che, se non esercitata, libererà altri 9 milioni dal cap. Persino il pluriennale di Robert Sacre, pur modesto, non è garantito nel 2015/2016.

Insomma, nell’off season 2015 i Lakers si ritroveranno con soli 4 giocatori sicuramente sotto contratto (Kobe, Young, Randle e Kelly) e appena 35 milioni di dollari di monte ingaggi garantito (possono diventare al massimo 46 con le varie opzioni citate), avendo dunque di nuovo disponibili circa 30 milioni di margine di manovra. In pratica, l’idea del duo una volta persi i big della free agency di quest’anno è stata quella di non appesantire eccessivamente il cap per un lungo periodo al fine di riprovarci già tra una stagione, quando potrebbero essere sul mercato, tra gli altri, gente del calibro di Rajon Rondo, Al Jefferson, Klay Thompson, Marc Gasol e LaMarcus Aldridge, oltre al figliol prodigo e vero sogno bagnato Kevin Love, in caso di mancato rinnovo (coi Wolves o eventuale nuova squadra). Il mercato di questa stagione è stato dunque all’insegna dello standby e del probabile sacrificio di un’altra annata in attesa di un nuovo assalto a qualche big, magari scegliendo nel frattempo di nuovo molto in alto al Draft: persino l’accordo con coach Scott è tutto sommato flessibile, essendo un quadriennale da 17 milioni ma con l’ultimo anno non garantito, che quindi, in caso di esonero se e quando la squadra sarà più competitiva, consente di non rimetterci eccessivamente.

 

Se in quest’ottica i movimenti dei Lakers possono assumere una parvenza di logica, seppur a lungo termine, alcune scelte sono parse più incomprensibili e ancor più indigeste agli appassionati tifosi gialloviola: su tutti l’ingaggio di Carlos Boozer, per più di un motivo. Se infatti, come detto, i contratti esosi di Lin e Hill trovano un senso in ottica salariale, quello di Boozer pare inspiegabile sia da un punto di vista tecnico (giocatore certamente blasonato e con buone stagioni alle spalle, ma in fase nettamente calante e soprattutto con caratteristiche similissime a quelle di Randle, che rischia così di rimanere chiuso) che contrattuale: per quanto infatti l’accordo non sia certo proibitivo, la sua firma ha comportato comunque l’obbligata rinuncia a Kendall Marshall, tra le poche note liete della passata stagione e a contratto a cifre irrisorie.

Una perdita che rende l’acquisto di Boozer non solo poco sensato ma per certi versi dannoso. Non tutti però sanno che l’ex Bulls è rappresentato da Rob Pelinka, di cui vi avevamo già parlato tempo fa. Pelinka è uno degli agenti più influenti della Lega, ed è noto che abbia un rapporto privilegiato con i Lakers: sono suoi clienti anche Wes Johnson e Ed Davis (oltre a due ex grandi Lakers come Trevor Ariza e Derek Fisher), ma soprattutto il suo assistito di punta, quel Kobe Bryant per il quale ha negoziato il rinnovo pochi mesi fa. L’ovvio peso di Kobe all’interno dell’organizzazione porta di riflesso un’influenza importante anche per Pelinka (i due sono peraltro legatissimi), acuita dall’intrinseca debolezza del duo al timone, che secondo alcuni si traduce in un vero e proprio peso decisionale all’interno del front office gialloviola da parte del potente avvocato. Il quale però, ovviamente, mantiene un occhio di riguardo verso i propri assistiti: ecco quindi che Boozer trova prontamente una sistemazione a El Segundo, anche a discapito dei vari Randle e Marshall.

 

Pelinka ha piazzato i suoi, Scott ha la panchina che sognava dopo esser stato giocatore importante da queste parti, Boozer ha un contratto, Kupchak e Buss salvano ancora una volta parzialmente la faccia, “rimandando” gli arrivi di prestigio. E in tutto questo rimane una squadra similissima a quella che ha chiuso mestamente nei bassifondi della Pacific Division, con un’unica grossa differenza: tornerà in campo uno a cui perdere, anche programmaticamente, piace il giusto. Nelle dichiarazioni estive, sostanzialmente dovute, Kobe Bryant si è detto soddisfatto dell’operato della dirigenza, ma pare difficile che possa realmente gradire un’altra stagione anonima e certamente lontanissima dalla cerchia delle pretendenti al titolo. Il Mamba torna dal secondo infortunio consecutivo piuttosto serio, il prossimo 23 agosto spegnerà 36 candeline e non ha più molte stagioni ad alto livello di fronte a sé per cercare quantomeno di eguagliare gli anelli conseguiti da Jordan, traguardo notoriamente per lui sentitissimo: ragion per cui perdere un’altra stagione (nella difficilissima Western persino i playoff sembrano fuori portata anche con il miglior Kobe) non può certo fargli piacere. Probabile comunque che ingoierà il rospo e attenderà la fatidica estate 2015, in cui i Lakers non potranno più sbagliare. Ne va della loro credibilità, già ora piuttosto intaccata. Dell’umore della tifoseria, già adesso messo a durissima prova. E dell’umore, soprattutto, della propria superstar, ansioso di tornare con i suoi Lakers ai livelli che più gli competono.

Attesissima l’espressione del Mamba per la foto di questa stagione

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