Seguici su

Editoriali NBA

Il Dottor Schiacciatore. Ovvero come imparai a non preoccuparmi e ad amare il ferro. Intermezzo ABA.

La storia di come si è sviluppata la ABA, toccato il fondo è saputa rinascere grazie alla operosa mente di Dennis Murphy

Siamo arrivati al 1971. Darnell Hillman sta per compiere il passo che lo porterà a giocare fra i professionisti. Da grande istrione qual è, tuttavia, merita che la sua storia, così amletica, così intensa e bella, abbia una trasposizione teatrale. E, come di certo saprete, a teatro, fra un atto e l’altro, si inserisce sempre un intermezzo, un momento di stacco. Ed è ciò che intendo fare. Non vogliatemi del male, ma ho bisogno di fare un piccolo passo indietro. É la storia che lo richiede.

All’epoca le leghe professionistiche di primo piano sono due: la NBA, custode della più pura essenza del gioco del Basketball – «The way Mr. Naismith invented it!» -, e la ABA (American Basketball Association), considerata la lega dei “ribelli”, dei “pagliacci” che giocano, neanche poi tanto bene, con la palla rossa bianca e blu. «I really thought that those clowns couldn’t play/Pensavo davvero che quei pagliacci non sapessero giocare» diceva, inumidendo con le labbra il sempre fedele sigaro, Arnold “Red” Auerbach, principale artefice di tutti i successi dei Boston Celtics, nonché uno dei più accaniti detrattori dell’altra lega, l’ABA appunto.

L’ABA, però, a dispetto del vecchio Red e di tutti gli altri come lui, riuscirà ad insinuarsi fra le anse dello sport professionistico americano e a scuoterne profondamente, fin dagli inizi, l’establishment, divenendo, nel corso dei suoi nove, selvaggi anni di storia “The Ultimate Rebel League”.

L’ABA nasce da un’idea di un altro figlio della California (è una costante che sta cominciando a diventare sinistra, non trovate?): Dennis Murphy.
Murphy pensa che il mondo dello sport sia pronto a sostenere l’ingresso in scena di una nuova realtà, ma fin dall’inizio, ed è ben noto a tutti, l’obiettivo resta uno e uno soltanto: costringere l’NBA ad espandersi, a scendere da quel trono elitario su cui si è appollaiata e, nel giro di qualche anno, portarla a considerare l’idea di fondersi con la neonata ABA, consentendo a parecchia gente di mettersi in tasca un bel mucchio di quattrini.

Murphy ci vedrà giusto, ma incontrerà qualche difficoltà sulle tempistiche. Il termine prefissato in “qualche anno” si dilaterà leggermente quasi fino a toccare la doppia cifra. Nel 1967, ad ogni modo, riesce a convincere alcuni investitori della bontà del suo progetto e da 11 di essi ottiene, assieme ad un fee di circa 5.000 $ a zucca, la disponibilità a dare origine ad altrettante nuove franchigie. L’ABA è nata.

Immediatamente Murphy e gli 11 proprietari si rendono conto che, per poter attrarre l’interesse dell’NBA in ottica di una possibile fusione, è necessario, come in ogni economia di mercato, farle una concorrenza spietata rubandole pubblico e introiti derivanti dalla vendita dei biglietti. Quale modo migliore di fare tutto ciò, se non quello di portare l’entertainment ad un livello superiore? Murphy & Co. capiscono che l’unico modo per raggiungere l’obiettivo prefissato consiste nell’offrire al pubblico pagante uno spettacolo a 360°. Tutto deve diventare Show«We were Showtime, before Showtime ever got near L.A.» dirige l’orchestra e canta Julius Erving. E allora via al valzer dei cambiamenti. Anzitutto sto Spalding color cuoio, che proprio non piace.

«Basta! Vogliamo la palla colorata.»
«Bianca rossa e blu va bene?»
«Perfetto!»
«E poi cos’è sta storia che se tiro da lontano vale sempre due punti? Facciamo una bella linea tra metà campo e pitturato e se si segna da lì dietro vale di più!»
«Sì ma quanto di più?»
«Che ve ne pare di 3 punti?»
«Perfetto George, sei un genio!»

George? E chi è sto George, adesso? Domanda legittima.

Secondo voi una lega professionistica nascente che decide di introdurre tutti questi cambiamenti in uno sport che, sostanzialmente, è rimasto lo stesso dal 1891, qual è il maggior rischio che corre? Chiaramente quello di non apparire credibile agli occhi del pubblico, della stampa e degli addetti ai lavori. Murphy lo capisce subito e ha anche la soluzione al problema: il primo Commissioner della lega deve essere qualcuno di assolutamente credibile e rispettato dall’establishment cestistico. Chi meglio di George Mikan allora, 5 volte campione NBA con i Lakers quando ancora erano di stanza in Minnesota? Nessuno, ovviamente. George Mikan accetta l’incarico e la sua presenza diventa importantissima per muovere i primi passi nel mondo dello sport professionistico. È Mikan infatti che intrattiene i rapporti con la stampa e mette la faccia su ogni decisione “bizzarra” che venga presa dalla lega, dandole immediata credibilità.

Ok! Proprietari e squadre ci sono, il Commissioner pure. Manca qualcosa…ah! Già già! I giocatori. Quelli mi sa che servono.

C’è un problema però: l’NBA, su questo fronte, la fa da padrone e tutto quello che rimane all’ABA son gli scarti, le briciole e con le briciole dell’NBA è difficile sfornare una pagnotta da farle andare di traverso. Servono le Superstar. Imperativo categorico.

Il primo giocatore veramente di livello NBA ad accettare l’offerta di giocare per l’ABA è Connie “The Hawk” Hawkins, che viene ingaggiato dai Pittsburgh Pipers. Connie è un giocatore straordinario (per il quale nutro un debole piuttosto mal celato). Solo che, per quanto dentro al campo sia assolutamente una Superstar, uno dei giocatori più incredibili che la pallacanestro abbia visto, non ne ha propriamente lo status agli occhi del pubblico. L’NBA, infatti, non lo vuole. L’ha bandito a causa di uno scandalo scommesse, che gli era costato l’espulsione dal College ad Iowa, e non vuole che giochi per loro. Insomma è un rinnegato. Bene, ma non benissimo. E così, mentre The Hawk/Il Falco si libra in volo divenendo il primo MVP delle Finals ABA, in pochi sono lì per testimoniarlo. Hawkins non basta. I biglietti venduti sono pochi. La media della lega è di 300 spettatori paganti a partita. Troppo pochi.

Che fare allora? Bisogna convincere qualcuno che sia veramente considerato una Superstar a passare dall’altra parte della barricata. Qualcuno la cui partenza metterebbe in serio imbarazzo quei colletti bianchi dell’NBA. E – perché no? – magari qualcuno che giochi già per loro.

«Signori proprietari, chiamate tutti i giocatori che vi vengono in mente e vedete un po’ chi riuscite a prendere. Per i soldi non vi preoccupate, garantisco io!»
«Signor Mikan, io avrei ottenuto la disponibilità di Rick Barry. Che faccio?»
«Firmalo! Firmalo subito! Ottimo lavoro… come hai detto che ti chiami?»
«Boone signore, Pat Boone.»

Ma…ma come Pat Boone? Stiamo parlando di basket o del Festival di Sanremo? Stiamo parlando di basket ragazzi, tranquilli! Pat Boone è, all’epoca, il proprietario degli Oakland Oaks e, approfittando della situazione di tensione fra Rick Barry e i San Francisco Warriors (sua squadra nella NBA), convince il grande Rick a suon di dollari (tre anni per 500.000 $! Una fortuna per l’epoca) a cambiare squadra e lega, ma non aria, visto che rimane nella Baia. La perdita di Rick Barry per l’NBA non ha lo stesso peso di quella di Connie Hawkins. Se Connie infatti è un “Renegade”, uno di cui non volevano neanche sentir parlare, Rick Barry è l’astro nascente.

Nel 1966, suo anno da Rookie, si era aggiudicato, ad oltre 25 punti e 10 rimbalzi di media, il premio Rookie of the Year. Nel 1967 vince l’MVP dell’All-Star Game, segnando 38 punti e guidando l’Ovest alla vittoria contro l’Est di Bill Russell, Wilt Chamberlain e Oscar Robertson, ed è il miglior realizzatore della lega con oltre 35 punti a partita. 35 a partita al secondo anno? Stiamo scherzando?! Inoltre, in coppia con Nate Thurmond, conduce i Warriors alle Finals NBA, in cui sono costretti ad arrendersi in 6 partite ai superiori Sixers di Wilt Chamberlain, non prima però che Barry metta su uno show. Ne segna 55 in gara 3 e, al termine della serie, la sua media realizzativa si attesta attorno ai 40 a partita! Record che sarebbe rimasto imbattuto fino alle Finals del 1993, quando un Signore in maglia rossa col numero 23 avrebbe deciso che era tempo per quel record di essere infranto. Sappiamo tutti di chi sto parlando, inutile che ve lo dica.

Rick al termine della stagione chiede ai Warriors “un riconoscimento” per quanto fatto, ma a Frisco fanno orecchio da mercante. La chiamata di Boone non può arrivare in un momento migliore. Il vecchio Pat, oltre ai soldi, ha dalla sua anche un jolly non indifferente: sulla panchina degli Oaks poggiano le natiche di Bruce Hale, già allenatore del Barry a Miami University, nonché suo suocero. Barry non ci pensa né uno né due. «I’m in!»

La decisione del Barry proprio non va giù alla NBA. Molti nasi si storcono, l’indignazione monta e Barry viene sottoposto a campagne diffamatorie di ogni tipo. La lega impugna addirittura il suo contratto coi Warriors e riesce ad ottenere che Rick non scenda in campo nella stagione 1967-1968. Alla fine però anche l’NBA deve arrendersi. Anche con Rick Barry a bordo, tuttavia, la variopinta nave ABA stenta a salpare.

«Una volta, durante una partita, mi son girato verso gli spalti e ho contato quanti spettatori fossero presenti. – racconta divertito l’uomo conosciuto come “Miami Greyhound” – 28! 28, vi rendete conto? C’era più gente in panchina e al tavolo dei commentatori che sugli spalti. Roba da non credere!»

In sostanza dopo due anni l’impatto dell’ABA nel mondo dello sport professionistico è praticamente inesistente. Sei delle undici franchigie originali sono state riallocate in altrettante città e tutte e undici hanno problemi economici e finanziari. Bisogna fare qualcosa per salvare capre e cavoli, altrimenti, dopo soli due anni, si rischia di chiudere.

Quel volpone di Murphy, che è bestia dura a morire, si rende però conto che nel sistema sportivo c’è una grossa falla e, anziché tapparla, infila il dito per allargarla. E improvvisamente quel morto che cammina che è l’ABA nel 1969 torna in vita. Murphy infatti capisce che con le vecchie Star, tronfie e venute in ABA a svernare, non si va da nessuna parte. Per farla in barba ai “cugini” più blasonati bisogna andare a cogliere i fiori appena sbocciano e, improvvisamente, si accorge che c’è un modo di farlo, anche se significa giocare sporco e forzare il regolamento. «Hell! We had nothing to lose!» Il regolamento dell’epoca, infatti, consente sì alle franchigie NBA di scegliere al Draft i giocatori più promettenti in uscita dal College, ma solo dopo i canonici quattro anni di permanenza nel campus. Prima che sia trascorso quel periodo alle franchigie NBA non è data nemmeno la possibilità di parlare con gli studenti. Murphy capisce che lo spazio di manovra c’è e lo sfrutta tutto.

«Se li contattiamo prima che finiscano il college e offriamo loro un mucchio di quei bei “presidentoni” morti, state tranquilli che questi mollano tutto e vengono a giocare per noi»

Ancora una volta il vecchio Dennis ci aveva visto più lungo di tutti.

Dal 1969 hanno inizio i “Draft” dell’ABA. La parola Draft, fidatevi, oltre ad essere eufemistica, fa persino sorridere. Quelli della ABA non sono veri e propri Draft, più che altro sono riunioni segrete, che si tengono a porte chiuse – stile Langley –, in cui si individuano i migliori prospetti di College che non abbiano ancora ultimato il percorso e poi, sulla base della disponibilità economica di ciascuna squadra, ci si accorda su quali delle undici siano autorizzate a fare delle offerte. Dopodichè partono tante di quelle telefonate che neanche durante le maratone di Telethon e i telefoni continuano a squillare fino a conclusione degli affari. Il sistema è talmente folle e borderline, che, come spesso accade, funziona!

Il primo colpo assestato dall’ABA seguendo questo modus operandi porta il nome di Spencer Haywood. Haywood viene “scelto” dai Denver Rockets al “Draft” del 1969 dopo il suo primo anno di College alla University of Detroit, dove ha fatto registrare 32 punti e 21.5 rimbalzi a partita – ripeto: 32 punti e 21 rimbalzi a partita! –, e accetta la chiamata.

«Non potevo lasciare mia madre a raccogliere cotone nei campi ancora per due anni. – dice Spencer – Sarebbe morta. Ho deciso di sfidare le regole e fare qualcosa per la mia famiglia.» Haywood gioca nei Rockets una sola stagione, ma che stagione!

30 punti e 20 rimbalzi di media a partita, che fanno di lui sia il miglior scorer, che il miglior rimbalzista della lega. Premio Rookie of the YearMVP della regular season e, con 23 punti-19 rimbalzi-7 stoppate, MVP dell’All-Star GameFE-NO-ME-NO!

Con Haywood ormai la strada è asfaltata e, dopo di lui, altri cominceranno a percorrerla. Addirittura nel 1974 un giovanissimo studente della Petersburg High School, con un nome biblico che più biblico non si può, deciderà di saltare il College e passare direttamente al professionismo.
Sarà il primo a compiere questo passo. All’inizio è solo Moses. Diventerà Moses Malone.

L’ABA ormai è sulla mappa. Nessuno può più ignorarla, anzi, il fatto che sia disposta a offrire molti soldi a quelli che accettino di venire a farne parte, ne accresce incredibilmente l’appeal. Molti giocatori, che si ritrovano contesi fra le due leghe, cominciano a scegliere “I clown con la palla colorata”.
«Ero conteso fra i Lakers e gli L.A. Stars. – racconta Mack CalvinPer me fu un “no brainer”. Gli Stars mi offrivano soldi e bonus, i Lakers un training camp e una canotta di Jerry West autografata.»

Questa è la situazione quando, nel 1971, il Nostro Darnell si affaccia al mondo del basket professionistico e…no!
Non abbiate fretta. La storia continua qua: Part II

Clicca per commentare

Commenta

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

Advertisement
Advertisement
Advertisement

Altri in Editoriali NBA