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Editoriali NBA

L’NBA e la Luxury Tax: quando i soldi non sono sempre sinonimo di vittoria!

Se alla frase “i soldi non fanno la felicità” il vostro scarno e soprattutto vuoto portafoglio (e non solo lui) ha un moto spontaneo di ribellione, questo detto, introdotto in una logica NBA, sembra avere (almeno in alcuni casi) un fondo di verità.

Il concetto dell’avere o meno i soldi in una Lega come quella professionistica di basket americana è ovviamente parametrato su livelli molto elevati (sempre e comunque fuori dalla portata dei più). Secondo quanto riportato in un articolo di qualche mese fa (clicca qui per l’articolo), nonostante l’istituzione del salary cap cerchi in tutti i modi possibili di “livellare” le differenze economiche tra le varie squadre, nella realtà dei fatti i “Big market” (Knicks e Lakers in testa) fatturano anche 4 volte più dei Bucks, fanalino di coda con “soli” 312 milioni di dollari.

Pensare che il solo accordo economico stipulato dai Lakers con la televisione locale californiana che manderà in onda le partite dei gialloviola la prossima stagione vale approssimativamente quanto la franchigia di Milwaukee (non è proprio così, ma spannometricamente sono cifre paragonabili) rende bene l’idea delle disproporzioni che anche in una Lega “controllata” si vengono a creare. Se TeleLombardia acquistasse i diritti delle partite del Milan per alcune decine di milioni di Euro, il povero Campedelli penserebbe che con quei soldi l’emittente regionale potrebbe comprare al completo Pellissier e compagni.

Ciò che segna la differenza però tra gli spropositi e le disuguaglianze del calcio e quelli NBA è la regolamentazione attraverso l’introduzione della “Luxury Tax”, nota ai più come tassa di lusso che obbliga chi sfora oltre una certa soglia a pagare oneri aggiuntivi. Domanda: i soldi di questa imposta dove vanno a finire? Sostanzialmente (non proprio tutto, in percentuali variabili ecc ecc) nelle casse delle società virtuose, ovvero nelle tasche di quelle più povere che non possono (e a queste condizioni non vogliono) superare il Salary Cap.

Vi starete chiedendo il perché di tutta questa tirata con tanto di lezioncina sulle regole salariali. In realtà quello che mi ha spinto a scrivere quest’articolo è la seguente tabella:

E’ lo storico del gettito totale ricavato dalle singole franchigie negli ultimi 12 anni, con tanto di classifica in ordine crescente a partire da chi non ha mai pagato un dollaro fino ai Knicks che con i loro 205 milioni di dollari, da soli hanno sborsato quasi un quarto delle tasse “di lusso” totali dell’intera Lega.

Per analizzarla partirei dal fondo. Dagli ultimi. Da chi, grazie a questo meccanismo, ha soltanto incassato.

Leggere il nome dei Wizard o dei Bobcats non meraviglia quasi nessuno, ma trovare i Thunder/Sonics tra quelle è già primo segnale di come l’equazione soldi = vittorie non abbia quel rigore matematico che i Prokhorov del caso auspicano per il futuro. Inoltre scelte societarie come quella fatta dalla squadra dell’Oklahoma hanno portato a grosse rinunce (leggi James Harden) e forse al definitivo abbandono (almeno nel futuro prossimo) alle speranze di titolo.

A metà della tabella precedente balzano subito agli occhi i San Antonio Spurs, che nel 2003 e nel 2007 hanno speso rispettivamente 187mila e 192mila dollari per portare a casa 2 anelli. Un discreto investimento per coach Popp e i suoi.

Scorrendo la lista e giungendo alle posizioni di vertice invece, il già precedentemente citato poco invidiabile primato dei Knicks coincide tendenzialmente come una sorta di “bonifico spontaneo” da 20 milioni (mediamente) ogni 12 mesi nell’arco dei 10 anni che la rilevazione comprende. Pensare che a fronte di questo esborso il risultato più prestigioso sia stata la semifinale di Conference giocata in questa stagione (tra l’altro persa contro i Pacers che, anche non avendo vinto titoli, sono un altro esempio “virtuoso” sotto questo aspetto) rende ancora più evidente il disastro a livello di gestione salariale da parte dei dirigenti della franchigia della Grande Mela.

Caso particolare è quello che coinvolge i Portland Trail Blazer, che nella stagione 2002-2003 hanno pagato più di 51 milioni di dollari di luxury, avendo dato vita ad un roster comprendente tra gli altri i vari Rasheed Wallace, Sabonis, Scottie Pippen e Shawn Kemp (entrambi all’ultimo giro di giostra in NBA). Tentativo miseramente naufragato contro i Mavs in semifinale e che è costato nel biennio 80 milioni mal contati di verdoni. Un’enormità.

Ovviamente. come tutto ciò che in natura tende ad assumere le sembianze di “regola”, esistono diverse eccezioni. I Mavericks campioni nel 2011 con i loro 20 milioni scarsi di luxury erano ai vertici della graduatoria, così come i Lakers della stagione precedente.

Certo, pensare a tutti i soldi letteralmente buttati quest’anno dai gialloviola farà si che nel prossimo futuro, anche una franchigia facoltosa come quella losangelina, dovrà fare per bene i propri calcoli.

Prokhorov è avvertito. Nel mondo dello sport (e in NBA in particolare) il gioco non sempre vale la candela. E i soldi non sempre portano gli anelli. Uomo avvisato, mezzo salvato.

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