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Editoriali NBA

Los Angeles Lakers 2012-2013: Where groupthinking happens

Premessa.
Le cose che seguono non sono completamente farina del sacco di chi scrive, ma sono prese a piene mani dall’ultimo libro di Ettore Messina (scritto insieme a Flavio Tranquillo): Basket, uomini e altri pianeti. Quindi già che ci siete andate nella vostra libreria di fiducia e accaparratevene una copia! Giuro che merita, se non vi piace vi rimborso di tasca mia…

S**t happens!
Cosa sta succedendo in quel di LA? Qualche dubbio sulla possibile amalgama della squadra di Kobe versione 2012/2013 l’avevamo tutti, ma non fino a questo punto! Lottare per il titolo o la finale della western è un conto, lottare per prolungare la propria stagione ai mesi di maggio e giugno  è un altro. I Lakers noni/decimi a ovest fanno senza dubbio una certa impressione, soprattutto se uno guarda il roster e scopre che annoverano tra le loro fila Kobe Bryant (ok lui c’è da sempre), Pau Gasol (uno che LA l’ha aiutata un paio di volte a portarsi a casa l’anello), Steve Nash (uno dei più forti playmaker della storia rubato ad una modesta carriera calcistica in serie B) e , last but not least, Dwight Howard (colui sulla cui schiena, e qui andiamo male, poggia il futuro della franchigia californiana). Tutto completato da buoni comprimari tra cui spicca il fu Ron Artest, auto rinominatosi Metta World Peace (glielo dite voi che il nome non è proprio un esempio di gusto ed eleganza).

Nonostante la compresenza di campioni di tale rango la squadra non è riuscita, fino ad ora, ad andare oltre un mediocre record di 25 vinte e 28 perse. Aldilà della questione infortuni, che va tenuta in considerazione, questo roster «stellare» ha evidenti lacune difensive, non esegue sempre un attacco fluido ed efficace, non ha una mentalità vincente e non riesce a creare al suo interno quella commistione tra leadership e lavoro di squadra che è necessaria per qualsiasi team con ambizioni da titolo. E a Los Angeles o ambisci al titolo o si sta tutti a casa. A rendere ancor più destabilizzante la situazione c’è il capitolo allenatore: Mike D’Antoni, preso un po’ a sorpresa quando tutti attendevano il venerabile maestro Zen, è un allenatore del tutto peculiare che sposa precise filosofie di gioco e rende (anche se il termine è ambiguo) all’interno di determinati sistemi e con organici di un certo tipo. Con questo non si vuole dire che Mike non abbia attitudine all’adattamento e alla valorizzazione del suo roster ma è innegabile che la sua idea di pallacanestro abbia caratteristiche ben precise e non implementabili in qualsiasi squadra NBA. Detto questo la situazione di LA si delinea come decisamente complessa e a tratti ineffabile. Tale complessità però, a parere di chi scrive, la rende estremamente interessante e fa sì che attraverso una sua analisi che superi le solite «chiacchiere da bar» sia possibile analizzare alcune dinamiche che interessano tutto il mondo delle franchigie NBA.
Di fronte a questa matassa semi-inestricabile (situazione in casa Lakers) si aprono le interpretazioni più disparate: come si può spiegare questa situazione? Quali sono le dinamiche che hanno portato  ad un esito così critico? Di seguito i possibili scenari…

  •  Scenario a) Nichilista/Catastrofista. I Lakers non hanno tutto sto roster alla fine. Kobe è forte oltre ogni comprensione umana ma non è capace di coinvolgere i compagni; Howard ha la schiena a pezzi e non avrà mai più l’esplosività che aveva ai tempi di Orlando; Gasol è irriducibilmente soft e la sua carriera è ormai su un piano inclinato; Nash non è più, per usare un eufemismo, un giovanotto. 
  • Scenario b) La fortuna è cieca ma la sfiga ci vede benissimo. La squadra è da titolo ma gli infortuni e il fatto che i giocatori di punta non siano al 110% hanno determinato il record  negativo con conseguente circolo vizioso tra pressioni, stress e frustrazione crescente.
  • Scenario c) Howard’s father version. Il punto critico è l’incapacità da parte di D’Antoni di gestire l’enorme potenziale del suo organico. In particolare il limitato uso di Howard in post-basso rende l’attacco meno efficace e non sfrutta l’enorme potenzialità realizzativa del ragazzo di Atlanta. Questo genera dinamiche distruttive all’interno della squadra: Dwight è scontento (chiedere a Van Gundy per info), non si crea la giusta chimica di squadra, Kobe inizia a giocare da solo, Gasol si addormenta, Nash inizia a palleggiare coi piedi e Jack Nicholson va via prima della fine del match (ahia!)
  • Scenario d) I have a dream!.  La squadra si riprenderà, i suoi campioni metteranno da parte ego e interessi personali e perseguiranno un comune obiettivo. I Lakers agguanteranno la postseason e poi andranno a vincere l’anello a mani basse.

 

Ora è innegabile che ognuno di questi scenari contenga contemporaneamente elementi di plausibilità e corbellerie assolute. Il momento di LA è realmente troppo complesso per essere spiegato con delle semplici dinamiche di causa-effetto: non è possibile definire di chi sia la colpa (società, giocatori, staff) perché farlo significherebbe dare una lettura un po’ troppo superficiale e riduttiva. È molto più interessante cercare degli strumenti di lettura che aiutino a comprendere più in profondità l’universo delle franchigie NBA, sfruttando come esempio più «vistoso» i giallo-viola. Nel farlo attingiamo dall’ultimo libro di Ettore Messina (e Flavio Tranquillo) che fornisce alcuni elementi estremamente illuminanti. Tra parentesi il volume è stato scritto da coach Messina proprio in seguito alla sua esperienza coi Lakers (ok era una stagione diversa ma l’ambiente è sempre quello).

Groupthinking, what the hell is that?
Col termine groupthinking si intende, in sociologia e psicologia, quell’atteggiamento che porta i componenti di un qualsiasi gruppo sociale a cercare una comfort area che assecondi un indirizzo dominante all’interno del gruppo stesso. In altre parole all’interno di ogni gruppo in cui sono presenti punti di vista differenti c’è la tendenza (il rischio) che, per non esporsi eccessivamente e rischiare di essere contraddetti o esclusi, i soggetti si omologhino e abbandonino la loro prospettiva. Creatività individuale, originalità e autonomia di pensiero vengono sacrificati al perseguimento dei valori di coesione del gruppo. Messina utilizza questo termine per analizzare le dinamiche che si creano all’interno di uno staff tra allenatore capo e assistenti, evidenziando come sia di giovamento alla squadra che ogni componente possa condividere le proprie opinione creando un circolo virtuoso nel quale l’originalità di ognuno è una risorsa e non un limite. Analogo discorso, a opinione di chi scrive, può essere fatto anche per i giocatori. In questo caso il groupthinking non si concretizza fuori dal campo quanto piuttosto nelle scelte concrete che vengono fatte dagli atleti durante le partite. Inoltre tale fenomeno non coinvolge primariamente i giocatori di punta ma la panchina, andando ad incidere in modo significativo sulla reale competitività della squadra. Per cercare di spiegare più chiaramente prendiamo (che caso) la situazione di LA cercando di fare un esempio.

Ipotizziamo che il quintetto sia formato da Kobe, Nash, Gasol, Howard e Jodie Meeks. Dopo una buona difesa LA esegue una buona transizione, palla a Meeks che si trova sull’arco dei tre punti con 2 metri di spazio. Segue il monologo interiore di Meeks.

Neurone 1 :« Dai ragazzo ce l’hai sto tiro! È na vita che ti alleni, è il tuo tiro…poi viene da una buona transizione, è filosoficamente corretto! Tira!»

Neurone 2 :« Questa è la squadra di Kobe! Passagliela immediatamente! Vuoi che non ti rivolga più la parola? Dai giovane liberati di sta boccia»

N 1 :« Non ascoltarlo tira!»

N 2 :« Passa a Kobe.»

Neurone 3 :« Giovane non vedi che c’è Pau sotto canestro? In quanti lo tengono dal post? Sono due punti in cassaforte!»

Neurone 4 :« Non vorrei dire ma c’è Nash dall’angolo…3 punti meglio di 2 no?»

Neurone 5 :« Amico arriva Dwight a rimorchio: se mette sta schiacciata vien giù il palazzetto. Lui poi è il futuro di sta squadra…»

Neurone 6 :« Questa è la squadra di D’Antoni! Avresti dovuto fare un pick’n’roll nei primi 6 secondi dell’azione…chiama time out e auto-escluditi dalla partita!»

 

Appare chiaro come per il povero Jodie, che ringraziamo per aver preso parte a questo simpatico siparietto, la situazione non sia delle più semplici. La tendenza a cercare quella comfort area nella quale si tenta di minimizzare i conflitti e raggiungere il consenso senza l’apporto della propria originalità genera l’incapacità, sul campo, di prendere decisioni significative per la squadra. La situazione è resa ancora più critica dalla complessità dei Lakers, all’interno dei quali coesistono varie tendenze dominanti.

So…

 Come già accennato all’inizio l’intenzione non è quella di individuare in modo preciso le cause che hanno generato questi Lakers, sarebbe impossibile nonché intellettualmente non onesto. L’intuizione di Messina, però, dà un punto di vista inedito (quello del groupthinking) sulla questione e sul modo con il quale si analizzano gli andamenti delle squadre. In questo senso, credo io, nei confronti dei Lakers ci concentra troppo sull’andamento dei big four e relative scaramucce tra di loro e con l’allenatore piuttosto che sulla coesione della squadra in sé. Quello che il tema del groupthinking fa emergere è che la leadership di un giocatore risiede nella sua capacità di mettere i componenti «secondari» della squadra nelle condizioni migliori per poter esprimere le proprie potenzialità: è leader chi permette al povero Jodie Meeks di turno di prendersi il tiro giusto al momento giusto. Forse è questa la sfida per LA in questo momento.

 

Marco Bulgarelli

 

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