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“Glory Road”, film sorprendente che parla non soltanto di basket..

Lo capisci sin da subito che il film che stai iniziando a guardare ha in serbo qualcosa di speciale. Bravo allenatore relegato a fare da coach alle ragazzine in un liceo semisconosciuto, chiamata da parte di un college che sembra essere l’occasione della vita, quando in realtà il budget messo a disposizione per le borse di studio dei ragazzi della squadra di basket è stato speso per rendere un po’ meno fatiscente l’illuminazione di una palestra dal parquet scricchiolante. Non il massimo. Eppure da amante del cinema (non è che poi serva grande intuito), lo capisci che sotto la cenere sta covando qualcosa. Lo capisci che è il preludio a quel tipo di storie che in qualche modo ti segnano, che lasciano una traccia. E la pellicola in questione tende a non deludere le aspettative dello spettatore. Glory Road, film di James Gartner del 2006, è uno di quei lungometraggi che ti fanno pensare di aver impiegato bene i 106 minuti necessari per guardarlo nella sua interezza.

Mentre lo vedi e ti diverti a seguire la cavalcata dei Miners della Texas Western Union di El Paso alterni due pensieri: il primo “che spettacolo” e il secondo “peccato sia solo un film”. Immaginare che una squadra di basket collegiale, un gruppo di ragazzi che per far fronte alla carenza di appeal in quanto a tradizione cestistica è composto da più neri che bianchi, possa superare le barriere del razzismo, della segregazione razziale, lanciando un messaggio ad un intera nazione sembra essere una di quelle favole che si raccontano ai bambini, una di quelle storie che servono ad illuderci del fatto che al mondo alle volte vincono anche i più deboli, quelli più svantaggiati, quelli che vengono messi in difficoltà più degli altri. Bel racconto davvero, se soltanto fosse vero.

Poi alla fine del film (l’esito dell’incontro della finale NCAA trai Miners e Kentucky è abbastanza scontato, per questo ne parlo con leggerezza non pensando di rovinare a nessuno il piacere di guardare il film senza conoscere la trama) (per intenderci, io mentre lo guardavo davo per scontato che la squadra texana avrebbe vinto e il film mi è piaciuto lo stesso) compare l’istantanea riportata di seguito:

Appena è apparsa sullo schermo la prima cosa che mi è venuta da pensare è stata: “Oddio i ragazzi in questa foto sono dannatamente simili agli attori del film, però si vede che non sono loro”. E lì, prima che parta il frame successivo, ho colto (voi direte “Finalmente!!!”). Ebbene si, quella squadra della Texas Western Union è esistita veramente, ha realmente vinto in stagione 23 partite perdendone una soltanto e raggiunto le Finali NCAA, vincendo contro Kentucky per 72 a 65. E soprattutto ha davvero schierato nella finale della stagione 1965/1966 un intero quintetto di giocatori neri contro una squadra composta da soli bianchi, rompendo quella cappa di intolleranza e di razzismo che così bene filtra attraverso il racconto.

Il tema dell’intolleranza razziale è indubbiamente il protagonista della pellicola (non me ne voglia il college basket, che resta parte essenziale della trama), portandoci a riflettere su quanto possa sembrare assurdo ai giorni nostri dar vita a gesti così assurdi e privi di senso, arrivando addirittura a considerare inferiori ed incapaci le persone di colore (magari spiegatelo a MJ, Magic, Kobe, Lebron o Shaq solo per dirne alcuni).

Storia a sé è quella di Don Haskins, protagonista più degli altri, vincente nato che non si piega davanti a nulla e che soprattutto riesce a vestire i panni del condottiero di una non facile combriccola di giocatori. Difficile anche la situazione per la sua famiglia e complicato tener testa ad un gruppo così eterogeneo, pieno di personalismi e allo stesso tempo stracolmo di incertezza, perplessità e paure. E’ proprio per questo che le storie e le avventure dei vari componenti del roster creano ancora di più un legame tra lo spettatore e questa squadra, tanto da far stentare a credere nel fatto che un’impresa del genere sia stata possibile.

In quanto a particolari relativi alla storia non mi dilungo oltre, lasciando a voi il piacere di godere di una prima visione che spero non vi deluda come non ha deluso me. Il titolo completo dell’opera è “Glory Road – Vincere cambia tutto”. Raramente tre parole messe in fila hanno avuto così tanta pertinenza e senso.

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