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Intervista a Simone Marcuzzi: l’NBA come romanzo

Marcuzzi, in Ventiquattro Secondi, rivive la storia NBA attraverso le gesta di Vittoriano Cicuttini. Un giocatore tanto leggendario da non essere mai esistito.

Simone Marcuzzi, dopo anni di esperienza nel romanzo d’autore (ha scritto anche per Mondadori), ha deciso di tornare alla sua prima passione: il basket. Ventiquattro Secondi, Autobiografia di Vittoriano Cicuttini, il suo ultimo libro, è la storia (di fantasia ma piena di punti di contatto con gli snodi cruciali della storia NBA) del primo italiano (immaginario) a giocare Oltreoceano. Una grande cavalcata attraverso il passato che ci ha portati a interrogarci sul futuro.

Dove ha origine la storia di Vittoriano?

Ventiquattro Secondi è figlio dei miei sogni di ragazzino. Da grande appassionato di pallacanestro credevo di poter diventare, un giorno, un giocatore NBA. Crescendo ho dovuto fare i conti con le mie limitate possibilità fisiche. Fino a quando non ho pensato di rivivere le mie aspirazioni giovanili in un romanzo: l’autobiografia del mio alter ego che “ce l’ha fatta”, a diventare una stella NBA. Di più: Vittoriano doveva essere un pioniere, il primo italiano a giocare Oltreoceano, e un personaggio dotato di un background in grado di avvincere tanto i cultori del basket quanto gli appassionati di narrativa.

Come si è sviluppato il personaggio? Sembra quasi un mix tra Meneghin e Kukoč…

I primi europei ad arrivare in NBA erano lunghi, centri e ali grandi che mixavano stazza e fondamentali ad altissimo livello (i Sabonis e Kukoč del caso). In Ventiquattro Secondi tento di sublimare le carriere dei grandi europei degli anni ’80 e ’90 e di farle rivivere attraverso Vittoriano. Vorrei citare pure Gregor Fučka, che anche se non ha giocato in NBA è forse il giocatore che mi ha ispirato di più nel delineare le caratteristiche fisiche e tecniche di Vittoriano (alto, longilineo, mano educata). Una chicca per gli appassionati: il mio personaggio viene scelto alla numero 40 del Draft 1986 da Atlanta, quando in realtà con quella pick gli Hawks selezionarono Augusto Binelli, centro italiano che ovviamente mi è servito da ennesimo modello.

L’affaccio sull’NBA è molto realistico. A quali fonti hai attinto, a parte la tua passione per il basket?

Vittoriano è del 1962, io sono nato nel 1981: l’NBA che ho conosciuto in presa diretta non è quella che racconto nel romanzo. Per descrivere in modo verosimile il basket Eighties ho guardato decine di video e interviste. Si trattava di ricostruire un’atmosfera attraverso la descrizione dei palazzetti, delle giocate cruciali e dei giocatori più iconici. Ho preso spunto anche dai grandi libri del passato: vorrei segnalare almeno l’ottimo e utilissimo Il Basket Eravamo Noi, che racconta l’incredibile amicizia-rivalità di Bird e Magic.

Ventiquattro Secondi è un titolo esemplificativo: quali sono i punti di contatto tra i tempi del basket e i tempi della vita?

Il basket ha il suo cardine nello scorrere del tempo. I 48 minuti sono sempre quelli, ma nei frangenti decisivi della partita i secondi si dilatano fino a sembrare infiniti. L’intensità del momento dà senso a ciò che sta accadendo. Nella vita di tutti i giorni a chi non capita di inserire il “pilota automatico” e di lasciarsi scivolare addosso ore, mesi o anche anni? La differenza la fanno le risposte che ci diamo nelle fasi calde delle nostre partite quotidiane, nei momenti in cui la vita decide di metterci alla prova. Vittoriano si confronta con questi frangenti decisivi (i 24 secondi del titolo) da cestista e da uomo: quando prende il tiro in grado di indirizzare una Finale di Conference e quando il destino lo colpisce del profondo della sua vita familiare.

romanzo

Simone Marcuzzi

Nel romanzo ci ricordi quanto dietro a ogni storia di basket ci siano drammi e specificità umane irripetibili… Trovi che l’appeal della pallacanestro stia anche qui: in questa individualità che si fa mito?

La storia NBA è piena di grandi solisti, oltre che di formazioni leggendarie. La pallacanestro è uno sport di squadra, in cui però il peso del singolo è fortissimo. Per Vittoriano, addirittura, il basket è il primo luogo sociale con cui confrontarsi, il microcosmo in cui fare esperienza di sé e degli altri dopo un’infanzia randagia. La doppia dimensione rapporto tra compagni-individualità feroce è un pilastro solido sul quale costruire racconti dal sapore epico, in cui tale conflitto non può che deflagrare.

A proposito di grandi individualità… Abbiamo inaugurato questo gioco nell’intervista a Emiliano Poddi: io ti dico il nome di un cestista, tu lo associ a uno scrittore e mi spieghi il perché. Partiamo da LeBron James.

Mi fa pensare a Jonathan Franzen. James ha un fisico impensabile, Franzen un talento altrettanto smisurato, però stanno facendo del controllo e del rispetto della tradizione la loro arma principale. LeBron ha modificato il suo modo di giocare, limitando l’esuberanza atletica per dominare attraverso una consapevolezza affinata di anno in anno; Franzen non si è mai fatto affascinare da forme sperimentali, dove forse avrebbe potuto dare sfoggio della sua intelligenza in modo più esplicito, e porta avanti la sua ambizione di scrittore all’interno del recinto del romanzo classico.

Kevin Durant

John Fante: la cosa che più mi impressiona di entrambi è l’apparente naturalezza del loro gesto distintivo. Il tiro di Durant esce spontaneamente, come la scrittura di Fante è un flusso narrativo inarrestabile. In realtà, più che dell’istinto, il risultato finale è frutto di grande disciplina. Che siano giunti a un tale livello di semplicità ed efficacia mi affascina moltissimo.

Steph Curry

David Foster Wallace in Infinite Jest ha fatto esplodere la forma romanzo, Steph Curry sta facendo detonare tutte le convinzioni sul tiro, sui tiratori e sul gioco in senso lato. L’innovazione parte sempre dalla creazione di un contenitore nuovo in cui rielaborare gli stilemi del passato.

Tre personaggi presenti nel tuo libro… Il primo: Magic Johnson

Bret Easton Ellis, scrittore losangelino. Entrambi brillanti sin da giovani ma a contatto con il lato oscuro dell’esistenza nella propria vita adulta: Magic per il dramma dell’HIV, Ellis per il continuo confronto con le ombre che si nascondono dietro a ricchezza e potere.

Mike D’Antoni

Hemingway, per il fortissimo legame con l’Italia. D’Antoni è una leggenda del nostro basket e ha pure preso la doppia cittadinanza. Non solo: scelte giuste, controllo incredibile, capacità di dettare il ritmo… Hemingway e D’Antoni sono grandi esempi di lucidità.

Danilo Gallinari

Vado leggermente fuori tema: lo assocerei a un cantante, a Jovanotti. La loro caratteristica innata è la voglia di confrontarsi con il nuovo: Danilo si è buttato nel vuoto entrando in NBA da giovanissimo, Jovanotti è partito da uno stile musicale per sperimentarne molti altri. Tutti e due hanno vinto la propria scommessa.  Sono pure amici, se non sbaglio.

Gallinari è riuscito a realizzare il suo sogno. Per te, dopo che da aspirante cestista sei diventato scrittore, cosa rappresenta l’NBA?

Un campionato che fa storia a sé, forse l’unico caso al mondo in cui tutti i più grandi giocatori sono riuniti nella stessa lega. E pure un calderone di storie in continua ebollizione: dai ritmi più blandi della regular season al fatalismo dei playoff.

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Copertina di Ventiquattro Secondi

E Michael Jordan? Com’è spiegabile, cestisticamente e narrativamente?

Ho letto la biografia monumentale di MJ, pubblicata in italiano dalla stessa casa editrice per cui è uscito Ventiquattro Secondi (66thand2nd); il libro è molto interessante dal punto di vista giornalistico, pur faticando a ricostruire la dimensione umana di Jordan in tutte le sue sfaccettature. MJ si è sempre proposto al pubblico come personaggio mediatico puro; molti dettagli della sua vita privata sono segretissimi e inaccessibili. Forse proprio questo contrasto tra icona e persona in carne e ossa lo ha ammantato di un’aura soprannaturale, oltreumana. Notazione personale: senza Jordan non sarebbe esistito il mio libro; la mia passione per il basket inizia da lui. MJ è il faro di ogni appassionato di pallacanestro.

Quali sono i tuoi giocatori e squadre preferite di ieri e di oggi?

L’altro mio idolo di gioventù è Carlton Myers. Tifavo Fortitudo e la mia adolescenza cestistica è segnata dal gioco da 4 punti di Danilovic nella finale scudetto del 1998, con il titolo già quasi cucito sulle canotte di Myers e compagni. Ho sempre avuto una passione per guardie e play: MJ, Drexler (a cui faccio anche dire una frase in italiano nella scena d’apertura del romanzo), Sprewell; Steph Curry tra i nuovi. Poi John Stockton: indossavo il 12 in suo onore. Era il ragioniere nella lega dei superuomini.

Veniamo al futuro: in Italia il basket sta guadagnando terreno sul calcio. Perché la pallacanestro all’improvviso ha tutto questo appeal? Il processo di crescita è irreversibile?

Il basket si sta creando spazio mediatico a grande velocità. Parte del merito è da attribuire alle innovazioni giornalistiche apportate dai due maestri del racconto cestistico italiano: Federico Buffa e Flavio Tranquillo. I 30enni di oggi, cresciuti a pane e telecronache su Sky, tramandano ai più giovani le proprie esperienze; si sta creando un circolo virtuoso. L’altro elemento forte è l’intreccio sempre più tangibile tra leghe europee e NBA: tanti giocatori internazionali si trasferiscono Oltreoceano, mentre le franchigie americane intraprendono tour d’esibizione nel Vecchio Continente. In Italia abbiamo una spinta d’interesse ulteriore: Gallinari è ormai un giocatore d’elite NBA; Belinelli è riuscito a vincere un titolo con gli Spurs e la gara del tiro da 3 all’All Star Game.

Siamo destinati a un futuro sempre più commerciale, o il basket conserverà la sua purezza narrativa?

Credo che rivalità in stile Bird-Magic o icone del cannibalismo sportivo come MJ non siano più possibili. Oggi l’NBA è più edulcorata: i giocatori puntano tutto sull’immagine e devono proiettare un senso di equilibrio e moderazione all’esterno. Il controllo arriva proprio dalle alte sfere della Lega: con tutti gli interessi commerciali in ballo i filtri comunicativi imposti sono molteplici. Si è persa un po’ di verità, da una parte, e di magia, dall’altra. Dietro a questa patina superficiale rimane, per fortuna, la concretezza del campo. Ball don’t lie, per dirlo con le parole di Rasheed Wallace.

Domanda secca: chi vince il titolo quest’anno?

Nonostante la partita di stanotte, in Finale vanno Golden State e Cleveland. Vince Golden State 4-2. Oklahoma City, però, mi piace tantissimo.

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Il macrocosmo NBA (credits to fadeawayworld.com)

 

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