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Aaron Craft, il Bill Bradley del ventunesimo secolo

Testa appoggiata al cuscino, libro di storia in mano, esame vicino. Siamo in una stanza come tante altre nel campus di Ohio State. Il letto però, è di uno studioso non propriamente comune. Appoggiato poco distante ecco il borsone, griffato buckeyes. Aaron Craft distoglie lo sguardo dal libro per un istante, osserva il gigantesco Ohio Stadium fuori dalla finestra, poi si sofferma su un poster appeso davanti a lui, lo accompagna da anni, da quando suo padre lo faceva sudare di giorno per ore e ore tra scivolamenti ed esercizi di ball handling e di notte per uno studio senza fine, spinto dall’innata brama di sapere. “Leadership is unlocking people’s potential to become better”. Queste le parole di Bill Bradley stampate a caratteri cubitali in quel foglio sbiadito attaccato con lo scotch davanti a lui.

Chi è Bill Bradley? Semplice. Avete presente l’amico invidiato perchè domina sempre al 2k13 anche con i New Orleans Hornets? Ecco, sarebbe meglio che ridefiniste i vostri canoni d’invidia. Una carriera universitaria semplicemente impressionante, dentro e fuori dal campo, a Princeton. 27 e 12 di media, ala piccola mancina con una visione di gioco ai limiti del pittoresco e con una mente, con un’attitudine allo studio ed alla vittoria senza precedenti. Esce dal college della contea di Mercer con sotto braccio una laurea con lode ed un titolo di miglior cestista univeristario USA. Ah già, tra un libro ripassato ed un canestro segnato per i suoi tigers, ha anche il tempo di vincere una medaglia d’oro olimpica a Tokyo, nel 1964, non propriamente una banalità. Non si ferma qui, continua a Milano, maglia Simmenthal. Tanto per cambiare vince, in questo caso la Coppa dei Campioni nel ’66. Ma non basta. Lo attende il Garden, scritta Knicks sul petto. Unidici anni, due titoli conquistati (’70, ’73). Durante il periodo nella Grande Mela però, il nativo di Cristal City, non si limita a metterne 12 ad alzata. Come al solito vuole andare oltre, sfida se stesso. Parla, manifesta, sfrutta la sua immagine per lanciare messaggi, evidenziare le problematiche sociali e politiche, già da Princeton sapeva difatti che la sua vita non si sarebbe limitata alla palla a spicchi. Brucia le tappe. Durante gli ultimi anni NBA, Bradley lavora per il direttore delle pari opportunità economiche di Washington. Una volta lasciati definitivamente quegli spogliatoi, oggi occupati da non propriamente menti d’altissimo livello, il trentaseienne d’1.96, decide d’abbandonarsi al puro esercizio mentale, diventando in pochissimo tempo senatore del New Jersey. Istituisce leggi di una complessità assoluta, guadagnandosi il rispetto della maggioranza degli elettori (come se ce ne fosse bisogno) e meritando di restare in carica per ben diciotto anni. Perde una sola volta nella vita, nella corsa alla Casa Bianca. Al Gore ha la meglio, ma direi che ci si può passare sopra. A sugellare questo tragitto incredibile, arriva anche la laurea honoris causa da un’università che conta poco poco. Oxford lo premia per essere stato “un atleta eccezionale, una colonna del Senato e un assertore delle cause dei deboli”.

Gli occhi di Craft tornano sul libro. Anche lui è uno studente modello.Lo è stato all’high school, a testimoniarlo il premio di miglior studente della scuola, lo è tuttora. Anche lui se la cava con l’arancia in mano, ma al contrario di Bradley, il suo non è un talento naturale. È frutto di ore ed ore di lavoro, di pura voglia, desiderio. In campo si nota subito la maniacale attenzione dei particolari, a partire dal fisico. Il suo metro e 80 scarso viene compensato da una massa muscolare letteralmente impressionante. Sembra un piccolo armadio a due ante. Ma è quasi superfluo soffermarsi sulle doti fisiche di questo ragioniere del parquet. Ostenta sicurezza, personalità. Incarna quel concetto di leader tanto caro al campione del suo poster. Non ferma mai palleggio e pensiero. Ad ogni pausa richiama i suoi compagni in un mini huddle, per parlare, per dirigere, per consigliare. Difensivamente è l’incarnazione del concetto d’applicazione. Batterlo dal palleggio è utopistico. Nonostante le braccia corte riesce sempre a mettere la mano sulla palla (più di 2 rubate a partita). In attacco a fronte di 4,7 assist di media perde solo 2 palloni, chiaro attestato della pulizia del suo gioco, vera e propria celebrazione del “pulito”. Coach Thad Matta sa di poter affidare le chiavi della squadra al suo numero 4, pare quasi nato per dettare i tempi ai suoi compagni. Fin dal primo anno universitario Craft ottiene un ampio minutaggio, pari al suo grado di maturità. Oggi, dopo la delusione dell’anno scorso, sembra pronto per guidare ancora i buckeyes in una rincorsa al titolo molto complicata.

Sul futuro da pro ci sono tanti, tantissimi dubbi. Immaginarlo in NBA risulta francamente difficile. Sia per il limitatissimo talento offensivo, anche se le medie di tiro dal campo di questi anni non sono per nulla male (40% complessivo con picchi del 50% da due e 36% da oltre l’arco l’anno passato), sia per una stazza che potrebbe non bastare nonostante tutto il lavoro possibile. A mio avviso in Europa potrebbe trovare la dimensione ideale, anche nei massimi livelli. Sul proseguo dela vita poi, non abbiamo dubbi che tra una ventina d’anni qualche ragazzino avrà in camera il poster di Aaron Craft, grande uomo dentro e fuori i palazzetti, il Bill Bradley del ventunesimo secolo.

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