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Hall of Famer

Moses nella Terra Promessa

Il gigante se n’è andato. In punta di piedi, quasi in silenzio, come quella sua voce sussurrata in quelle poche volte che si concedeva ai microfoni, in netto contrasto a quanto rumore provocava sul parquet. Un giocatore per certi versi unico, che ha segnato quasi un quarto di secolo con la sua presenza rassicurante per i compagni e temibile per i malcapitati avversari. In questo luttuoso e tragico periodo per il mondo NBA, un infarto si è portato via a soli 60 anni uno dei suoi pilastri, Moses Malone.

La carriera del fenomeno, perché di questo si è trattato, ebbe un avvio fulgido e precoce, come quasi sempre succede in questi casi. Dopo aver fatto sfracelli alla High School, il giovane Malone sembrava in procinto di portare i propri talenti al college, segnatamente alla University of Maryland. Con un episodio da Ratto delle Sabine, però, la ABA lo rapì in tenera età, mettendolo subito sotto contratto, con gli Utah Stars, e rendendolo uno dei primi esempi di giocatori passati professionisti direttamente dal liceo.

Questo perché Moses, forse anche per quel nome profetico, aveva delle qualità che in pochi al mondo possedevano, e che lo rendevano una vera e propria macchina da guerra sul campo. I tratti distintivi, tra i vari, erano probabilmente due: l’istinto e la tenacia. Già perché Malone aveva un intuito fuori dal comune nel capire le traiettorie dei tiri, propri e dei compagni, arrivando sempre con un attimo di anticipo, spesso decisivo. Il tutto lo univa ad una forza, ad una voglia e ad una combattività nei pressi del ferro che non si sono forse mai viste su di un parquet. Le due caratteristiche, come è facile intuire, lo resero presto uno specialista di altissimo livello nel fondamentale del rimbalzo, specialmente quello offensivo, come testimoniato sia dalle 6 vittorie nella speciale classifica delle carambole catturate, sia dal soprannome che lo accompagnò per il resto della vita: The Chairman of the Boards, il presidente dei rimbalzi, un nickname che, pur perdendo l’originale doppio senso, fa ben capire cosa volesse dire nella NBA di quegli anni andare a sfidare Moses Malone nell’area pitturata.

Dopo un biennio nella ABA, passato tra gli Stars (14,6 rimbalzi di media a 19 anni) e gli Spirits of St. Louis, per quel giovanotto cresciuto in fretta era arrivato il momento di sbarcare nella Lega. Gli esordi non furono proprio chiari e limpidi: Moses venne infatti selezionato dai New Orleans Jazz in una sorta di pre-draft nell’inverno 1975, ma poi venne rilasciato all’interno del vasto Dispersal Draft dell’estate seguente, dovuto alla fusione di ABA ed NBA. A selezionarlo furono i Portland Trail Blazers con la quinta scelta, pur avendo a roster un certo Bill Walton ed il rookie Mo Lucas. Forse la presenza dell’ex leggenda di UCLA convinse la dirigenza a sbarazzarsi presto del nuovo arrivato, che venne ceduto, poco prima dell’inizio della regular season, ai Buffalo Braves. Viaggio finito? Nemmeno per sogno. Tempo due gare e per Malone era di nuovo la volta di fare le valigie, questa volta con destinazione Houston Rockets.

I Rockets erano una franchigia da poco fattasi notare sulle carte nautiche NBA, con nessun pedigree ma qualche giocatore interessante. L’arrivo del giovane centro venne accompagnato da un misto di scetticismo e curiosità. 437 rimbalzi offensivi dopo, la prima di 14 stagioni consecutive in doppia doppia di media ed una Finale di Conference raggiunta, molti dei dubbi vennero presto spazzati via. Nel frattempo Moses aveva fatto in tempo, durante i Playoffs, a catturare 15 rimbalzi offensivi in una gara, ovviamente record all-time NBA (tale statistica, per amor di verità, non veniva registrata in epoche precedenti, quelle di Bill e Wilt per intenderci).

La stagione seguente venne convocato per il primo di 12 All Star Game consecutivi, ma subì un grave infortunio al piede che sembrava poterne precludere un’ulteriore ascesa. Presto anche qua ogni nube sarebbe stata dissipata via.

Alla propria forza da uragano a catturare i palloni vaganti, con quell’innata capacità di poter convertire da due punti anche a seguito di un proprio errore, Malone era riuscito ad abbinare anche un tiretto frontale, ampliando ulteriormente il proprio bagaglio tecnico. Non era bello stilisticamente, col giocatore che si ingobbiva per tirare, ma pagava comunque dividendi. Da prima opzione della squadra, era ormai chiaro che i Rockets sarebbero andati dove Moses li avesse portati. I numeri diventavano sempre più impressionanti: 17,6 rimbalzi di media nel’79, 37 in un singolo incontro, 587 offensivi totali (record precedente frantumato) e, soprattutto, al termine della stagione, votato come MVP, un vero e proprio trionfo per un ragazzo ancora così giovane.

Era giunto anche il momento di fare strada all’interno dei Playoffs. All’inizio dell’annata 1980-81 Houston venne spostata nella Western Conference che, allora come oggi, non era proprio sinonimo di tranquillità. A dispetto della solita stagione da metronomo straordinario di Malone, i Rockets chiusero l’annata con un misero record di 40-42. La postseason doveva consistere in una rapida ed indolore uscita; nessuno però aveva fatto i conti con l’oste. Al Primo Turno contro i campioni in carica, i Los Angeles Lakers, l’uscita dei Texani sembrava cosa fatta. Nella decisiva gara-3, al Forum, tutto sembrava apparecchiato per la vittoria dei giallo-viola. Il cuore di Malone e compagni, abbinato agli errori dalla linea della carità di Magic/Tragic Johnson, diedero un’insperata qualificazione agli ospiti, che ricevettero al contempo un’energica iniezione di fiducia. Al round successivo, sempre col fattore campo avverso, fecero fuori in 7 partite i cugini di San Antonio, per poi battere in appena 5 partite l’altra sorpresa targata Kansas City Kings. Moses e compagni si trovarono inaspettatamente catapultati alle NBA Finals 1981, un traguardo ritenuto impensabile sino a pochi mesi prima.

NBA Finals 1981

Avversari erano gli arcigni Boston Celtics, che furono definiti “idioti” da un Malone pronto a dar battaglia anche in materia di trash talking. Il leader dei Rockets non si fermò certo qua. Prima di gara-5 dichiarò che i bianco-verdi erano poca roba, tanto che avrebbe potuto benissimo “trovare quattro persone a caso tra le vie di Petersburg (la città natale) e batterli”. Ad avere l’ultima risata furono però Larry Bird soci: 4-2 e Celtics campioni, con Malone a chiedersi cosa avrebbe dovuto e potuto fare di più.

Animato forse dalla voglia di rivalsa dopo la Finale persa, Moses tornò ancora più scatenato in campo nell’annata seguente. Fece registrare il suo career-high di punti, 31,1, e vinse il suo secondo trofeo da MVP. Tuttavia, ai Playoffs i Texani non riuscirono a replicare quanto fatto di buono l’anno precedente, venendo subito estromessi da Seattle. Poi, in estate, ecco il colpo di scena.

Moses Malone, l’alfiere di Houston, cambiò casacca. Da free agent con restrizione firmò un contratto con i Philadelphia 76ers, con i Rockets costretti a pareggiarlo per poi organizzare un sign&trade. Sulla East Coast Moses trovava una squadra iper competitiva, che veniva però da alcune stagioni frustranti in cui era stata battuta, regolarmente, o dai Celtics o dai Lakers, soprattutto per i mismatch a loro favorevoli nei pressi del canestro. I giocatori di talento non mancavano, come Cheeks, Toney o l’emblema della pallacanestro degli anni Settanta, Doctor J, al secolo Julius Erving; c’era però bisogno di un ulteriore quid. Malone si calò perfettamente nello spirito di squadra e colmò da subito il vuoto: vinse il suo terzo trofeo di MVP, diventando l’unico giocatore della storia NBA a farlo per due anni di seguito ma con due squadre diverse. I tifosi, sempre molto esigenti, di Phila se ne innamorarono subito. Capendo quanto potesse essere vicino il titolo, gli dedicarono un simpatico quanto efficace striscione: Moses take us to the promised land. La squadra sembrava davvero imbattibile, così, prima dei Playoffs, il sempre schivo Malone, col suo inglese non proprio Chauceriano, si lasciò andare alla sua celebre previsione sulla postseason della squadra: Fo’, fo’, fo’, ovvero tre sweep ed anello ai 76ers. Ci andò tremendamente vicino. Ad Est i Sixers batterono 4-0 i Knicks e 4-1 i Bucks, approdando alle NBA Finals 1983. Avversari, manco a dirlo, gli odiati Lakers ed il temuto Kareem. La leggenda giallo-viola si sarebbe ricordata a lungo quello scontro. La serie fu, nei fatti, davvero a senso unico e Malone fu semplicemente indiavolato, finendo in tutte le gare top scorer e top rebounder dei suoi. Il confronto, impietoso, a rimbalzo con Abdul-Jabbar si nota dai numeri, 72-30; le cifre ancora più importanti però furono altre. 4-0 per Philadelphia e Sixers campioni NBA con Moses ovvio MVP delle Finali e con il tanto agognato anello al dito. Quella voglia, quella determinazione e quella caparbietà erano state finalmente ripagate.

Quello che poteva essere un punto d’inizio, diventò “solo” l’apice di una carriera. Moses Malone non sarebbe più riuscito a vincere un titolo NBA. I Sixers, rinforzati anche dall’arrivo di un certo Charles Barkley, subito messo sotto l’ala protettiva del super veterano e stella, non centrarono più l’appuntamento con le Finali. La beffa fu che, nel 1986, l’alfiere della squadra dovette pure perdere i Playoffs a causa di un infortunio. Philadelphia smontò a poco a poco i propri pezzi e, nella stessa estate, mandò Moses ai Washington Bullets. Non più freschissimo, soprattutto con quel chilometraggio alle spalle, restava sempre uno spettacolo da ammirare, per quella forza e quella strapotenza in area, arricchite ormai da un certo bagaglio di esperienza.

La produzione rimase elevata durante le stagioni nella Capitale ed anche dopo il passaggio del giocatore agli Atlanta Hawks. Con l’arrivo degli anni Novanta, però, era ormai chiaro che il suo destino fosse quello di giramondo, splendido professionista e mentore per i più giovani. Dopo un’altra buonissima stagione ai Milwaukee Bucks, nell’Autunno del 1992, a 37 anni, subì un grave problema di ernia del disco che, di fatto, lo limitò fortemente. Fece un’altra comparsata ai 76ers, in un dolce cammeo che aveva come obbiettivo svezzare Shawn Bradley, prima di chiudere una leggendaria carriera, nel 1995 ed alla soglia dei 40 anni, come riserva di David Robinson ai San Antonio Spurs.

I numeri sono forse l’ultimo degli elementi utili per capire la grandezza di questo gigante, ma fa sempre sensazione rileggerli: stiamo parlando di uno da oltre 27mila punti (al momento ottavo di sempre), quinto rimbalzista ogni epoca con oltre 16mila, che ha avuto il privilegio di giocare più di mille partite nella NBA e che per più di 8mila volte è stato mandato in lunetta (numero 2 nella Lega), a testimonianza di come fosse difficile arginarlo con le buone nel pitturato. A corollario, inoltre, stanno l’elezione nella Hall of Fame e quella nei 50 Migliori Giocatori di sempre.

Il cuore di Moses Malone, quello che usava sempre sul parquet, ha cessato di battere nella mattinata del 13 Settembre 2015. Doveva partecipare ad un evento di beneficenza, ma non ha fatto purtroppo in tempo ad abbandonare la stanza dell’hotel in cui è stato poi ritrovato senza vita. Il grande cordoglio espresso dall’intera famiglia NBA ha riportato sotto le luci della ribalta una personalità che non aveva mai amato particolarmente i riflettori, ma che era sempre entrato nel cuore dei tifosi delle squadre in cui ha militato. Ora, chissà, ha raggiunto altri due grandi centri della storia dei Sixers che sono purtroppo scomparsi prematuramente, Wilt e Darryl, ma il suo ricordo continuerà a vivere nella mente di quelle tante persone che lo hanno potuto ammirare sul parquet per così tanti anni. E, forse, Moses avrà trovato anche Altrove quella Terra Promessa a cui era riuscito ad approdare durante la vita terrena.

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