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Hall of Famer

Mo e Jack

Questa è una storia di un’America che non c’è più, di un basket professionistico che emetteva i suoi primi vagiti, di immagini in bianco e nero che appartengono, ormai letteralmente, al secolo scorso. Questa è una storia di amicizia, quella vera e profonda, commovente e bella allo stesso tempo, che è stata proprio di recente “rispolverata” dalla NBA per evitare che cadesse in un oblio immeritato. Questa è la storia di Mo e Jack.

Mo, Maurice Stokes, nacque il 17 giugno 1933 a Pittsburgh, Pennsylvania, in una famiglia povera, eredità pesante della Grande Depressione del tempo. Il giovane Stokes si rivelò essere, da subito, molto portato per la pallacanestro, sviluppando un fisico ed un atletismo invidiabili e invidiati. Dopo il periodo dell’High School, Maurice decise di iscriversi al piccolo St.Francis College, università di scarsissima tradizione. La musica sarebbe presto cambiata con l’arrivo del nuovo sceriffo in città. I Frankies vennero letteralmente trascinati da Stokes, riuscendo a raggiungere posizioni di rilievo all’interno del NIT, che all’epoca contava molto di più del Torneo NCAA. L’esperienza universitaria vide Maurice chiudere con le astronomiche medie di 22 punti e 24 rimbalzi. Rifiutato un contratto con gli Harlem Globetrotters, Stokes venne scelto alla posizione numero 2 del Draft 1955 dai Rochester Royals. Nonostante gli scetticismi, dovuti a college di provenienza e colore della pelle, in un paese profondamente lacerato da questioni razziali, Stokes era pronto a far vedere a tutta la Lega di che pasta fosse fatto.

John Kennedy Twyman, per tutti Jack, nacque pure lui a Pittsburgh, il 21 Maggio 1934. Tipico ritratto della guardia-ala bianca di fine anni’50, Twyman, per gli strani casi del destino, fu avversario nei playground di tante sfide proprio contro Stokes. Al college, Cincinnati, divenne uno dei principali terminali offensivi dei Bearcats, chiudendo l’ultimo anno universitario a 24,6 punti e 16,5 rimbalzi di media. Dichiaratosi al Draft 1955, venne scelto con l’ottava chiamata assoluta dai Rochester Royals. La sua strada, quindi, si sarebbe incontrata di nuovo con Stokes. Non l’ultima volta che i loro destini si sarebbero incrociati.

Rochester ci aveva visto lungo. Nel suo debutto NBA Stokes fece registrare la seguente stat-line: 32 punti, 20 rimbalzi, 8 assist ed un calcio in faccia. Per un giovane nero non doveva essere certo facile a quei tempi, ma a poco a poco Mo imparò anche a rispondere ai colpi, non solo ad incassarli. 2 metri per oltre 100 chili distribuiti su di un fisico scolpito, l’avvento di Maurice nella Lega fece ammattire decine di difensori avversari e gettare nel panico molti allenatori. “Karl Malone con più tocco”, “Più forte e miglior tiratore di Elgin Baylor”, “Magic Johnson prima che ci fosse un Magic Johnson”. Potrebbero sembrare esagerate, quasi irrealistiche queste considerazioni sull’attuale forza e unicità di Maurice Stokes. Coloro che pronunziarono tali affermazioni non erano, tuttavia, degli sprovveduti; rispettivamente, gli autori furono Bob Cousy, Oscar Robertson e Red Auerbach. Mo aveva conquistato tutti, con un gioco all-around da far girare la testa. Al termine della sua prima annata NBA vinse il premio di Rookie dell’anno, con quasi 17 punti ed oltre 16 rimbalzi di media, primo nella speciale classifica. Subito All-Star, il giocatore sembrava avviato verso una fulgida carriera.

Anche Twyman si tolse diverse soddisfazioni da matricola, chiudendo in abbondante doppia cifra di media, come avrebbe fatto per tutta la sua carriera, eccezion fatta nell’ultimo anno.

Nonostante un’accoppiata travolgente, Rochester fece fatica a trovare spazio nella postseason, vedendo anzitempo chiudersi ogni prospettiva di gloria. Al suo secondo anno Stokes peggiorò lievemente le sue cifre, tranne quelle a rimbalzo, diventando però uno dei migliori giocatori dell’NBA, un All-Star perenne. Come il solo Magic sapeva fare, Mo recuperava il pallone, arpionandolo sotto le plance, mettendosi poi a guidare il contropiede, magari servendo proprio Twyman per due punti facili. Quest’ultimo così ricorda il compagno di squadra:”Era Elgin Baylor e Michael Jordan, prima che questi ragazzi venissero fuori, solo Maurice era 3 pollici più alto e 20 chili più pesante. E’ stato il primo a combinare quella forza e velocità che quei ragazzi avevano. Sarebbe diventato uno dei migliori cinque giocatori di sempre.”

Nella stagione 1957-58 le cose per i Royals, nel frattempo trasferitisi a Cincinnati, sembrarono volgere al meglio. Le due stelle della squadra avevano affinato un’ottima intesa e, di pari passo, crescevano le statistiche individuali e le vittorie della franchigia. Stokes era arrivato addirittura terzo nella classifica degli assist, un evento che solo il “one and only” Wilt Chamberlain sarebbe riuscito a ripetere, migliorandolo, una decade dopo. I rimbalzi erano diventati oltre 18, i punti quasi 17. Il terzo All-Star Game in altrettanti anni da professionista avevano sancito l’appartenenza di Maurice all’elite della Lega, quella che un titolo prima o poi lo avrebbe vinto, male che vada si sarebbe restati ad imperitura memoria nelle menti degli appassionati e negli almanacchi. I Playoffs, finalmente, erano stati raggiunti, la strada verso la gloria per il giovane ragazzo di Pittsburgh sembrava in discesa. Il destino però sta sempre in agguato, pronto a farsi beffe degli esseri umani.

12 Marzo 1958, ultima gara di regular season, avversari di turno i Minneapolis Lakers. Durante una lotta per un rimbalzo, Stokes cade pesantemente a terra, sbattendo violentemente la testa sul parquet. Maurice sviene, viene rianimato a fatica con i sali, ma, da toro qual’è, sembra a posto fisicamente. Torna in campo ed è top-scorer dell’incontro. Finita la gara, i Royals viaggiano tutta la notte in treno per raggiungere Detroit, avversaria nel primo turno della postseason. Poco prima della gara Stokes si sente male, nausea e vomito sembrano metterlo KO. Il giocatore stringe i denti, scende in campo e chiude con 12 punti e 15 rimbalzi. Sarà la sua ultima partita NBA.

Sull’aereo del ritorno le cose peggiorano in maniera repentina. Poco dopo il decollo Maurice si aggrava, ha il tempo di dire al dottore “Mi sento come se stessi per morire”, prima di svenire, vittima di feroci convulsioni e di un conseguente collasso. Una hostess gli dà dell’ossigeno, un gesto che lo salva da morte certa. Con ancora un’ora e mezza davanti prima di atterrare, il presidente della squadra nonché dell’intera Lega, Maurice Podoloff, decide di continuare il viaggio. Una scelta che fa discutere ancora oggi.

La caduta contro i Lakers gli aveva procurato una encefalopatia post-traumatica, un gravissimo danno che lo aveva privato delle capacità motorie. Il cervello di Stokes si era gonfiato a dismisura, un processo accelerato dalle condizioni di pressurizzazione che vi sono, tipicamente, in un aereo. Maurice riuscì ad uscire dal coma, ma il corpo aveva richiesto un’elevatissima tassa: era rimasto paralizzato. In più, beffa atroce, il giocatore e la sua famiglia rimasero soli. Tutti se ne andarono, tutti lo abbandonarono all’impossibilità di sostenere le cure mediche, compresi i proprietari che non gli garantirono un minimo di indennizzo o di assicurazione. Tutti tranne uno: Jack Twyman.

Jack rimase profondamente turbato da quanto avvenuto al compagno di squadra. Non riusciva a capacitarsi di come Stokes fosse rimasto solo, per di più in quelle condizioni critiche. Twyman fu presenza costante all’ospedale, sviluppò anche un sistema di comunicazione con Maurice che, dal canto suo, lottava più di quanto facesse sul parquet. Tramite massacranti sedute di fisioterapia, lo sfortunato giocatore riuscì a compiere più miracoli che con una palla in mano. Tornò a parlare, a mangiare, a muoversi e perfino a fare dei piccoli passi, una cosa impensabile con un danno del genere, fatale nella stragrande maggioranza dei casi. Twyman e la moglie, però, volevano fare qualcosa di ancora più concreto. Dopo aver consultato gli organi competenti, Jack compì la sua azione più bella, più di una schiacciata a canestro, un passaggio dietro la schiena o una stoppata: diventò il tutore legale di Stokes, colui che avrebbe fatto fronte a tutte le spese mediche. Un legame nato nei campetti di Pittsburgh, rinforzato ai Royals, era così diventato eterno, con un gesto che commosse tutta l’America.

Nonostante fosse il giocatore più pagato della squadra, Twyman aveva bisogno di ulteriore aiuto per il suo amico Mo. Così decise di organizzare una partita-evento a cadenza annuale, alla quale aderirono tutti i migliori giocatori del paese. Gente come Chamberlain, Cunningham, Russell, Abdul-Jabbar, Erving e tanti altri, furono protagonisti di un evento di beneficenza che è proseguito nel tempo, diventando, dal decennio scorso, una sfida a golf. Jack si diede molto da fare, raggiungendo vari accordi pubblicitari al fine di raccogliere quanto più denaro possibile. Maurice, oltre ai miglioramenti fisici, manteneva intatto il senso dello humour, facendosi vedere a bordocampo in alcune delle esibizioni in suo onore.

In tanti lo andarono a trovare durante la degenza in ospedale. La sua vecchia università gli dedicò il centro di allenamento, una decisione che riempì di lacrime gli occhiali di Mo. Purtroppo una condizione così difficile non poteva durare molto. Il 6 Aprile 1970 il cuore di Maurice Stokes batteva per l’ultima volta. Aveva 36 anni, da 12 era intrappolato in quel corpo che aveva fatto così promettere nella NBA.

Jack Twyman fu presenza fissa agli All-Star Game, diventando una delle colonne dei Royals, che si erano aggiudicati i servigi, nel frattempo, di Oscar Robertson. Jack fu uno dei primi a chiudere una stagione con almeno 30 punti di media, nell’annata 1959-60; di lui si ricorda anche la famosa frase “I think we see Willis coming out”, pronunciata in occasione dell’avvincente ritorno in campo di Willis Reed per gara-7 delle Finali NBA 1970. Fino alla fine Twyman fu vicino allo sfortunato amico, accompagnandolo anche durante l’Ultimo Viaggio, guadagnandosi il rispetto in tutta l’America. Nel 2004, con una commovente cerimonia e con colpevole ritardo, Stokes è stato introdotto postumo nella Hall of Fame; a fare gli onori e le sue veci il vecchio Jack, scomparso lo scorso anno, che con la voce rotta dal pianto si è congratulato col suo vecchio amico per avercela fatta.

Le maglie numero 12 e 27 fanno capolino in bella vista alla Arco Arena, vicine così come lo sono state le persone che le hanno indossate. Nonostante già nel 1973 fosse uscito un film dedicato a tale incredibile vicenda, per molti anni è sceso il silenzio su questa storia, a molti sconosciuta. Lo scorso giugno, però, la NBA ha istituito un nuovo premio, il Twyman–Stokes Teammate of the Year Award, consegnato al giocatore che incarna, secondo i giurati, il compagno di squadra ideale. Primo vincitore è stato Chauncey Billups dei Los Angeles Clippers.

Quello che è successo a Maurice ha ricondotto tutto in una giusta prospettiva per me. Se le persone vogliono ricordarmi per questa cosa e non per quello che ho fatto in campo, non mi disturba affatto.”. Mo e Jack, quando il basket vuol dire di più, molto di più.

Alessandro Scuto

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