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Editoriali NBA

Jimmy Butler, salvato tra i sommersi

Jimmy Butler, la storia di un uomo con un passato devastante

Il vento che quest’anno soffia sulla Windy City non è aria di tempesta. Quest’anno è un soffio carico di entusiasmo e ottimismo, perlomeno dal punto di vista cestistico: uno dei più attesi comebacks della storia della Lega sta per avere luogo, e non serve che vi dica a chi mi stia riferendo. Manca ancora qualche giorno all’inizio ufficiale, ma i pochi minuti in cui Derrick Rose è tornato a calcare il parquet in maglia Bulls autorizzano i tifosi a un cauto ottimismo. Dopo due intere stagioni pesantemente condizionate dai guai fisici del loro MVP, Chicago sogna di tornare dove aveva lasciato: il miglior record della Lega e la Finale di Conference.

Magari, nei prossimi anni, anche al passo successivo, ginocchia di Rose permettendo.

L’ossatura della squadra è all’incirca la stessa di allora. Coach Thibodeau non è più un ottimo esordiente, ma uno dei migliori allenatori della Lega. E se i Bulls hanno cristallizzato il mercato in attesa del ritorno di D-Rose (provocandone peraltro qualche malumore), vi è comunque qualcuno che allora non c’era e oggi c’è. Uno in particolare, che si è sempre fatto trovare pronto quando le varie ecatombe di infortuni colpivano la franchigia dell’Illinois, assumendo man mano un ruolo sempre più centrale nella travagliata stagione passata, in cui comunque i Bulls han fatto miracoli. Uno che oggi è uno dei pilastri di una squadra che vuole tornare grande. Uno che se non si chiamasse Jimmy Butler e non disponesse di attributi grandi come il nativo Texas, difficilmente sarebbe arrivato dov’è ora.

Credits to nbareligion.com

Farsi trovare pronto, si è detto. Probabilmente è la frase che riassume non solo la carriera, ma anche l’esistenza di questo ragazzo che vede la luce a Tomball, sobborgo periferico di Houston, nel 1989. Perché se non cogli quelle poche occasioni che ti si presentano quando nasci in posti non propriamente raccomandabili come questi, poi è dura uscirne, soprattutto se sei nelle condizioni in cui è cresciuto Jimmy.

Il futuro giocatore dei Bulls vive i primi anni con la sola madre: come accade troppo spesso negli States nei quartieri popolari, il padre prima ingravida la compagna, salvo poi lasciarla sola con un figlio piccolo. Non si può dire che Jimmy cresca in un contesto benestante, ma perlomeno ha un tetto sopra la testa; tetto che improvvisamente perde quando la madre, ritenendolo un teppistello, gli dice che “non mi piace la tua vista, te ne devi andare”. Non è uno scherzo o una frase buttata lì in un momento d’ira: Butler, che peraltro teppista non è di certo, si ritrova sulla strada. Il tutto a 13 anni, quando la preoccupazione principale dei suoi coetanei più fortunati è far evolvere in fretta Charmander per battere il capo palestra.

Quattro anni. Se tutto è relativo, anche quattro anni di esistenza diventano un secolo quando ogni singolo giorno devi rimediare un pasto e un letto, e non si sa bene dove lo troverai: talvolta, se va di lusso, Jimmy viene ospitato da qualche amico, ma non di rado finisce nei ricoveri per senza tetto o passa addirittura la notte all’addiaccio in strada. E se possibile diventano addirittura più lunghi se vanno a coincidere con l’intera adolescenza di un ragazzo, in un periodo di sviluppo psico-fisico fondamentale che per lui resterà segnato da quest’esperienza tanto traumatica quanto temprante. In quei 1500 giorni circa in cui vaga senza radici per un posto come Tomball, Jimmy è costretto a crescere in fretta, ma si dimostra molto più maturo di quanto la sua età di preadolescente farebbe pensare, tenendosi lontano dai guai, evitando le scorciatoie seducenti quanto pericolose, e rimanendo anche a scuola, nonostante i voti siano per forza di cose piuttosto bassi. A tenerlo fuori dai guai, in una situazione in cui perdersi è un attimo, è soprattutto la sua più grande passione: la pallacanestro, che viste anche le doti fisiche non indifferenti gli riesce piuttosto bene.

Solo all’alba dei 17 anni, finalmente, questo calvario finisce: merito  di Jordan Leslie, compagno di squadra alla Tomball High School, con cui lega dopo un 3-point contest (inutile che vi dica chi abbia vinto). Anche Jordan non naviga certo nell’oro, la sua è una famiglia allargata in cui la madre, con 3 figli, ha sposato un uomo separato, anch’egli con 3 eredi a carico, e c’è anche un ultimo pargolo nato dalla nuova unione: in tutto 7, più i genitori. Non è facile mantenere tante persone, eppure la famiglia di Jordan prende in casa senza alcun indugio anche Jimmy, mantenendolo come se fosse figlio loro. Raccontando la sua incredibile vicenda, Butler dirà che “non era per il basket. Lei (la madre di Jordan, ndr) era molto amorevole, semplicemente mi accolse con loro. Non potevo crederci”.

 Jimmy specificherà che non era per il basket perché ormai, nonostante la sua situazione difficile (per usare un eufemismo), dal punto di vista cestistico è ormai un prospetto: ha scollinato i due metri, ma sa tirare, palleggiare e giocare da esterno. Finalmente in un contesto più sereno, chiude l’ultimo anno all’high school con 19 punti, 8 rimbalzi e il titolo di MVP stagionale. Numeri ottimi, ma non abbastanza da suscitare l’attenzione dei grandi college: finisce così al Tyler Junior College, in cui è subito protagonista, tanto da ricevere la chiamata dalla ben più prestigiosa Marquette per la stagione successiva. Nel primo anno coi Golden Eagles è il cambio di Wesley Matthews e non ha moltissimo spazio, ma a partire dalla stagione da junior parte titolare mettendo assieme ottime cifre, che ritocca ulteriormente nel suo ultimo anno (oltre 15 punti e 6 rimbalzi), in cui trascina la squadra al torneo NCAA segnando pure il canestro della vittoria contro Connecticut e St. John’s: dopo quattro anni per la strada, farsi trovare pronto quando gli viene concessa una chance è diventata la sua specialità.

 Mirotic and Butler

Non sarà l’ultima volta in cui sfrutterà appieno queste occasioni: dichiaratosi per il Draft nel 2011, ma non certo di essere scelto, Jimmy decide di prendere parte al Porthmouth, torneo organizzato per dare visibilità ai prospetti non di prima fascia. E di visibilità se ne prende eccome, chiudendo come miglior giocatore e attirando l’attenzione di parecchie franchigie che scelgono tra fine primo giro e inizio secondo.

Considerata la rivalità che si è poi venuta a creare, è ironico che proprio i Miami Heat avessero la ferma intenzione di fare il suo nome con la prima pick del secondo giro; non male finire con Lebron, ma secondo giro vuol dire contratto non garantito. Invece, dopo tanti problemi la ruota comincia a girare anche per Jimmy, che viene soffiato agli Heat una chiamata prima dai Chicago Bulls, il che significa ultima scelta del primo giro e triennale garantito ottenuto per un soffio.

Vista a posteriori, sembra difficile che Butler avrebbe fatto fatica a ottenere un rinnovo anche in casa Heat. Infatti, nonostante ora la sua situazione economica sia decisamente migliorata, Jimmy non smette di avere il vizio di non fallire le occasioni che gli si presentano, quasi un lascito dell’esperienza di vita in strada. Come al college, anche tra i pro l’inizio è in ombra, da panchinaro con pochi minuti a disposizione; ma dopo un’ottima Summer League nell’estate 2012, il suo minutaggio cresce, fino alla definitiva esplosione a seguito dell’infortunio del titolare Luol Deng: ancora una volta si fa trovare pronto, chiudendo con 18 e 8 rimbalzi alla prima da titolare, e non fermandosi più, con una seconda parte di stagione giocata a ottimi livelli e coronata da dei playoff da protagonista della Windy City (complici anche i tanti infortuni in casa Bulls).

 jimmy-butler.jpg

Il vento ora sta cambiando in quel di Chicago. Deng è recuperato ma, soprattutto, Rose è tornato. Butler non sarà più chiamato a fare gli straordinari, ma è evidente che ormai sia un tassello fondamentale di una squadra che ora ha grandi ambizioni; nonostante la giovane età, difficile che possa soffrire troppo le aspettative. Già negli ultimi playoff, quando gli veniva chiesto come facesse a giocare partite così importanti con quella tranquillità, Jimmy rispondeva semplicemente di non avvertire la pressione. Quando si ha alle spalle un’esperienza di vita come quella di Jimmy Butler, è più facile dare alle cose il giusto peso: perché il basket resta pur sempre un gioco, anche se ti trovi a marcare (egregiamente) Lebron James in una semifinale di conference NBA. Dover rimediare ogni giorno un tetto diverso sopra la testa, sapendo che se fallirai dormirai su un marciapiede, o giocarsi un’esistenza intera in una singola occasione, questo mette pressione, non certo una partita tra milionari, per quanto importante. Vivere tutto questo e riuscire a uscirne, peraltro con una grandissima dignità (ha reso pubblica la sua storia solo dopo aver terminato il college, perché non voleva ricevere un trattamento diverso per pietà), questa è la vera impresa, non eliminare i favoriti Nets al primo turno. Jimmy Butler quest’impresa l’ha compiuta grazie a un innato talento ma anche ad una forza d’animo fuori dal comune: molti che si ritrovano in situazioni simili non hanno questi mezzi, e ne restano sommersi. Lui invece si è salvato, e il suo resta un bell’esempio di come, anche in mezzo a mille difficoltà, con una buona dose di volontà il vento possa sempre cambiare.

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