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Hall of Famer

Earl il pioniere

Do you think this nigger can play any basketball?“. Non era facile essere una persona di colore negli Stati Uniti negli anni’50. Come l’aristotelico pensiero sopra riportato dimostra, per gli afro-americani era naturale, già da tanto tempo invero, essere l’obbiettivo degli scherni e degli abusi da parte della componente bianca della popolazione. Certo, con Jackie Robinson a farsi notare sui diamanti dei campi da baseball qualcosina era cambiato in positivo, ma una convivenza pacifica ed interculturale pareva distante anni luce.

A nulla erano valsi i ragazzi neri morti nei vari fronti della Seconda Guerra Mondiale o quelli che, proprio nello stesso periodo, sacrificavano le proprie vite per lo zio Sam in Corea, altro scenario bellico di spicco. La diffidenza nella vita quotidiana era davvero all’ordine del giorno e coinvolgeva anche il nostro ristretto ambito d’interesse, la pallacanestro. Poi un giorno, per fortuna, è arrivato Earl.

Il viaggio di Earl Lloyd è sintomatico della cultura e della società a stelle e strisce a cavallo del già citato secondo conflitto globale ma, allo stesso tempo, fornisce un grande esempio di determinazione e voglia di riscatto. Nato e cresciuto nella Virginia degli anni’30, la vita per Lloyd non fu certo facile nelle prime due decadi d’esistenza. Le discriminazioni razziali erano il pane quotidiano per tutti coloro i quali avevano l’unico difetto di essere nati con una pelle di colore diverso. Ogni giorno era una sfida, con in palio la propria stessa vita. No, non era certo facile essere un nero a quei tempi.

Divenuto un omone di un metro e novanta, Earl decise di avvicinarsi allo sport che avrebbe cambiato non solo la propria esistenza, ma anche quella di tanti suoi contemporanei e discendenti. Non aveva grande talento, ma grande attitudine al gioco di squadra e spirito di sacrificio. Al college andò alla vicina West Virginia State University, con la quale si fece notare in giro per la nazione. La squadra vinse due titoli di Conference e rimase imbattuta, unica nel paese, nel 1948; Lloyd, dal canto suo, fece incetta di premi, venendo nominato per due volte All-American.

Contemporaneamente, da un’altra parte negli States, si andava ratificando un’importante decisione. Dopo anni di convivenza come leghe parallele, BAA ed NBL avevano deciso di fare fronte comune e fondersi, dando vita ad un nuovo campionato professionistico, la NBA. Earl non poteva saperlo, ma i suoi destini stavano per incrociarsi con la nuova entità.

Un giorno, nel tardo Aprile 1950, Lloyd stava passeggiando nel campus di WVSU con una ragazza che frequentava lo stesso corso di studi. Chiacchierando del più o del meno, la giovane ad un certo punto si girò verso il proprio interlocutore dicendogli: “Ah Earl, ho sentito il tuo nome oggi alla radio. Dicevano che sei stato scelto da una certa squadra a Washington, i Capitols o una roba simile”. Internet era ancora un parto delle fervide menti degli scrittori di romanzi fantascientifici, ma a Lloyd quell’informazione, giunta inaspettata e con mezzi davvero di fortuna, avrebbe davvero cambiato la vita. Non poteva saperlo allora, ma l’eccitazione era comunque tanta. Era stato scelto al Draft NBA.

Earl non era stato l’unico nero ad essere selezionato in quel giorno di primavera. Assieme a “The Big Cat”, anche Nat Clifton e Chuck Cooper prendevano la via della National Basketball Association, componendo così il terzetto dei pionieri che avrebbe rotto, per sempre, la barriera della segregazione nella pallacanestro.

Grazie alla propria etica lavorativa ed alla già citata determinazione, Lloyd lavorò duramente durante il training camp, deciso a tutti i costi a far parte del roster attivo della formazione della Capitale. Durante quella esperienza, gli accadde una cosa che non pensava di poter fare mai nella propria vita: parlare con un bianco. Non era mai successo, fino ad allora, che il figlio della Virginia avesse scambiato quattro chiacchiere con una persona di un’altra razza. Nonostante una diffidenza iniziale, in breve si fece anche diversi amici all’interno dello spogliatoio.

Riuscito ad entrare tra i 10 della squadra, restava ora la parte principale: esordire nel campionato. Il 31 Ottobre ecco consumarsi la Storia. A Rochester, nello stato di New York, erano di scena i Capitols, per incominciare la propria regular season. Dato che nè Clifton né Cooper giocavano in quella giornata, toccò proprio a Lloyd diventare il primo giocatore di colore nella storia della NBA. Un momento epocale. A nulla valse nemmeno la “colorita” espressione di uno spettatore presente sugli spalti, riportata già all’inizio di questo articolo. Gli afro-americani erano entrati, giustamente, all’interno del grande carrozzone della pallacanestro a stelle e strisce.

La stagione non andò per il verso sperato. Dopo 7 gare la franchigia fu costretta ad abbandonare l’attività, cessando di fatto di esistere. Earl fu così costretto ad arruolarsi nell’Esercito, spendendo l’intero anno successivo lontano dai parquet. Terminata l’esperienza, fu difficile lo stesso trovare una squadra disposta ad ingaggiarlo. Dopo un periodo che sembrava interminabile, arrivò l’offerta giusta, quella dei Syracuse Nationals.

I 6 anni passati da fedele scudiero di Dolph Schayes, una delle prime superstar della Lega, furono i più felici ed importanti della carriera di Earl Lloyd. Non erano a lui destinati i palloni dell’attacco dei Nats, ma era ben felice di piazzare blocchi per i compagni, andare a rimbalzo e difendere duro. Fece registrare una sola annata in doppia cifra (10,2), nel 1954-55, viaggiando sempre attorno alle 6-7 carambole ad incontro. In compenso, proprio nel 1955, arrivò il titolo battendo in 7 gare i Fort Wayne Pistons. Per Earl era arrivata la consacrazione da giocatore ed un altro record immortale: era divenuto il primo afro-americano campione NBA in coabitazione con Jim Tucker, che era arrivato in quella stagione a Syracuse.

Non erano certo mancate le controversie in quel periodo. Le urla e gli scherni della folla erano davvero insostenibili. “Torna in Africa” era l’espressione più comune e, per certi versi, più gentile. Quando si viaggiava verso il profondo Sud, la situazione si faceva ancora più incandescente. A causa delle leggi territoriali in merito alla segregazione, fu costretto a non poter giocare diverse partite. Nonostante l’odio e gli insulti di cui era vittima costantemente, Lloyd tirò sempre dritto per la propria strada, aggirando con classe gli ostacoli che si paravano innanzi.

Nel 1960 Earl, dopo un biennio passato con la maglia dei Detroit Pistons, decise che era giunto il fatidico momento di non calcare più i parquet tanto amati. Rimase nella Motor City in seno all’organizzazione, sia come scout che come assistant coach. Nel mezzo, ecco completato il personalissimo trittico pionieristico. Nel 1971 divenne il primo allenatore di colore nella storia della Lega. L’esperienza biennale, seppur non indimenticabile e dai risultati rivedibili, legò ancor di più il nome di Lloyd alla comunità afro-americana, grazie a successi ed esperienze che avevano segnato la strada. Indietro non si sarebbe più tornati.

Oggi la Lega è composta in larga parte da giocatori neri, ignari tuttavia delle fatiche e delle conquiste ottenute da gente come Earl Lloyd. Il giusto riconoscimento per la propria opera di pioniere dei parquet arrivò nel 2003, con l’introduzione nella Hall of Fame per il contributo dato allo sviluppo del gioco. Lloyd, ma anche Clifton e Cooper, non erano certo uomini copertina, né schiacciatori terrificanti o dotati di un ball-handling Iversoniano. Avevano durezza, mentale e fisica, solidità e voglia di riscatto sociale, a testimonianza della dignità di una razza che avvertiva i sintomi di un cambiamento possibile ed auspicabile. Una dignità riscontrata anche nell’episodio che ha aperto questo pezzo e che vide come protagonista la madre di Earl.

Dopo aver sentito il figlio vittima di tali ingiurie, si alzò verso l’autore dell’infelice frase e, con calma e fierezza allo stesso tempo, rispose per le rime. “The nigger, can play”.

Alessandro Scuto

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