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Editoriali NBA

Straight outta Oakland

La storia di Damian Lillard, dai primi palleggi per le strade di Brookfield Village, Oakland alla tanto attesa convocazione per l’All-Star Game di Los Angeles

Il numero 0 come la “O” di Oakland, terra natia di Damian Lamonte Ollie Lillard, first of his name.

 

“I don’t think people will ever be able to admit someone is better than Jordan, even if they are.”

 

Se vuoi diventare Re, devi uccidere il Re. Non c’è altra via, non ci sono scorciatoie. Fai piombare la tua ascia sul corpo dell’avversario, o preparati a riceverla sul tuo. Gli affetti da “serie-tivùite acuta”, come il sottoscritto, avranno già colto il riferimento a Vikings ed al suo protagonista Ragnar Lothbrok. Paragone che, a mio parere, calza a pennello con il “guerriero” residente a Portland, Oregon.

Il colpo d’ascia è stato scagliato nel settembre scorso, con il tweet di cui sopra. Damian Lillard ha ufficialmente dichiarato guerra all’universo NBA (addetti ai lavori, atleti e spettatori), e non ha intenzione di fermarsi. Si badi bene, però: non è per sé che sta reclamando il trono. Ha dato il via ad una battaglia di epocale importanza, mettendo in discussione il Precetto dei Precetti della pallacanestro contemporanea (MJ is the f****** GOAT), senza paura delle possibili conseguenze (mediatiche) di un tale gesto.

Per spiegare le ragioni di tale suo temperamento, ci si può limitare ad una singola lettera: la “O”. Oakland come stato d’animo, Oakland come modus operandi. Non è un caso se anche gli altri due figli più nobili del Dio cestistico di Oakland (Paul Pierce e Gary Payton) siano accomunati da un simile spirito battagliero. La città è quinta negli States per numero di omicidi annuali, e si ha la sinistra sensazione che quel ranking possa essere scalato ulteriormente. Alcuni membri delle forze dell’ordine, per parte loro, non hanno disdegnato di scendere a patti con le gang locali, alimentando la fiamma della criminalità cittadina. Per questa ragione, qualche anno fa, gli organi governativi hanno pensato di inviare in loco un giudice federale, affinché vigilasse sulla difficile situazione locale e provasse a limitare la corruzione dilagante. Con risultati alterni, finora. Di contro, va anche detto che la la città sta vivendo in sé e per sé un periodo di transizione e di crescita a livello economico, esclusi alcuni quartieri storicamente dimenticati dalle autorità locali. Parte di questi è, senza ombra di dubbio, il quartiere di Brookfield Village (nella zona est della città, vera terra natia di Lillard). Fa specie pensare che a soli 4 km di distanza dal sobborgo californiano si erge imponente la Oracle Arena, teatro, probabilmente, del miglior spettacolo cestistico di sempre. Il viaggio verso il “Valhalla cestistico” del nostro Dame comincia in quelle strade.

 

“I’m not scared of nobody. I think that’s the main thing, I don’t fear people. Because I know how stuff goes…I’ve seen it all.”

 

Come per gran parte degli atleti afroamericani, la salvezza spesso può risiedere nel binomio famiglia-attività sportiva, o in una sola delle due. La prima ancora di salvezza di Dame è stata la Arroyo High School, sede della locale squadra di pallacanestro, allenata da coach Howard Gamble, suo primissimo mentore. Quest’ultimo dirà in seguito di non aver mai visto una simile etica lavorativa in un ragazzo così giovane. Mentre i suoi compagni di squadra, alla fine di ogni allenamento, non perdevano neanche un minuto per correre a casa a spaccarsi di Playstation 2, lui sceglieva (senza alcuna remora) di rimanere in palestra, sfruttando le due ore aggiuntive durante le quali si sarebbe dovuta allenare la squadra senior. Cominciava, in parallelo, il suo programma personalizzato: lavoro sul ball handling (in particolar modo con la mano sinistra), sessione di tiro nei canestri laterali e studio del gioco dei più grandi, alla ricerca di qualche nuovo movimento da aggiungere in faretra. Tuttavia, nonostante le buone premesse, il suo percorso nella squadra di coach Gamble non fu affatto facile. Dame era uno dei soli due ragazzi colored in squadra, il che non costituì alla lunga un grandissimo ostacolo. Il vero problema era costituito dal fatto che lui fosse, appena arrivato, già il migliore in squadra, al netto di un’età inferiore a quella dei suoi compagni di squadra. Coach Gamble non poteva non dargli ampio minutaggio, a costo di scatenare malumori tra i componenti più anziani del team. La bomba era pronta ad esplodere. I suoi compagni di squadra cominciarono, nel bel mezzo della stagione, a non presentarsi più agli allenamenti; i loro genitori decisero di intervenire spingendo per il licenziamento del nuovo coach afroamericano arrivato lì per rovinare le vite dei loro “piccoli fenomeni”. Obiettivo raggiunto: spogliatoio incendiato e coach Gamble a caccia di un nuovo incarico. Non appena Dame fu informato dell’accaduto, si sentì in dovere di schierarsi dalla parte del suo mentore e di fare immediatamente un passo indietro. Quell’ambiente malsano avrebbe ostacolato il suo percorso di crescita umana, prima ancora che sportiva, e non l’avrebbe mai e poi mai potuto accettare.

Ciò che rimaneva di buono di quella sua prima esperienza di High School erano il suo rapporto con coach Gamble e le ore passate in palestra a lavorare sui suoi fondamentali.

Coloro che in quel periodo gravitavano attorno a lui hanno più volte detto che, già da allora, attorno a lui spirava il vento della grandezza: un vento che può essere alimentato esclusivamente grazie all’impegno ed alla dedizione. Qualità imprescindibili di un leader by example, quale Lillard è sempre stato. In quest’ultimo caso specifico, probabilmente l’ereditarietà genetica avrà avuto largo spazio. Ed è qui che entra in scena Houston Sr.: un padre, ma soprattutto un modello comportamentale ed un amico su cui poter sempre contare. L’impegno costante e incondizionato del signor Lillard nei confronti della comunità povera (e specialmente dei ragazzini in odore di criminalità) di Brookfield Village, meriterebbe un articolo a parte. Chiunque si fosse trovato in una situazione di difficoltà, sapeva di poter andare a bussare sulla porta del bungalow color blu oceano della famiglia Lillard, vedendosi sempre accolto a braccia aperte.

Una classica favola all’americana, una storia fatta di eroi invisibili in cui il principio del do ut des non trova alcuno spazio. A trovar spazio è, al massimo, la fervida immaginazione del piccolo Dame, ben nota a chiunque lo abbia visto calpestare un parquet NBA con le sue Adidas. Storicamente i grandi cestisti, come i grandi artisti, sono stati guidati da un comune istinto: plasmare il più possibile la realtà a proprio piacimento e superarla, laddove questa presenti dei limiti per la loro vena creativa. Ed è esattamente ciò che ha fatto Dame, nel momento in cui ha maturato la bizzarra decisione di utilizzare gli alberi del giardino di sua nonna come canestro. Il suo primo tiro in step-back è nato lì, su quel terreno, con il suo Spalding che perforava ripetutamente i rami a forma circolare dell’albero prescelto.

Dopo il triste primo capitolo della Arroyo High School, il giovane Dame dovette rimettersi alla ricerca di una squadra per il suo anno da sophomore. Ad accoglierlo stavolta ci fu coach Don Lippi, della Saint Joseph Notre Dame High School (in cui si è formato cestisticamente un tale Jason Kidd). Dame allora poteva contare solo su 165 cm di altezza e su un atletismo ancora lontano da quello attuale. I modi di coach Lippi non erano certo dei più gentili e politically correct possibile, e le loro conversazioni suonavano pressoché sempre allo stesso modo: non sei ancora pronto Dame, devi lavorare sodo sul tuo fisico e sulle tue skills; abbiamo gente più pronta di te, sii paziente e arriverà il tuo momento. Ma il fatidico momento tardava ad arrivare, destabilizzando pian piano la fiducia di Damian, già messa a dura prova nel suo anno da freshman.

Ancora una volta, il paragone eroico verrebbe naturale. Nella poesia epica, gli eroi erano guidati da un fuoco interiore, dalla memoria uno o più eventi negativi che li tormentavano; nello specifico caso di Dame, trattasi delle esperienze alla Arroyo e alla Saint Joseph, che durarono un solo anno l’una. Quel feeling mai sbocciato con coach Lippi (e quelle frasi al vetriolo spesso rivolte contro di lui), quelle partite vissute in panchina ad incitare i compagni, senza mai la possibilità di poter offrire il proprio contributo sul campo, nonostante il duro lavoro in palestra, lo spinsero a cercare una nuova dimora cestistica. La scelta ricadde sulla vicina Oakland High School. Questa volta, per sua fortuna, si trovò di fronte un coach più benevolo (tale Orlando Watkins), con il quale sin da subito si instaurò un rapporto basato su una genuina schiettezza e, soprattutto, sul rispetto reciproco. Sotto l’ala protettiva del nuovo allenatore, Dame ebbe modo di continuare a migliorare negli aspetti meno limpidi del suo gioco (leggasi defence, su tutti), vedendo il proprio lavoro ripagato con un buon numero di minuti a disposizione nelle partite ufficiali. Le medie del suo biennio lì parlano di 20.7 punti, 2.2 rimbalzi ed 1 assist ad allacciata di scarpe. Da allora, il suo cammino non avrebbe più annoverato burrasche e approdi d’emergenza da affrontare. La terra promessa, l’obiettivo di una vita, erano ormai nel mirino: diventare conte di una franchigia NCAA prima e Re di una franchigia NBA poi.

Nonostante le cifre di tutto rispetto messe in vetrina durante il suo periodo di permanenza alla Oakland High, le riviste Scout e Rivals (esperte nel reclutamento di giovani talenti dell’High School) lo quotavano con sole due stelle su un massimo di cinque. Il risultato: nessuno dei College più importanti del Paese osò offrirgli una borsa di studio. Non molto tempo dopo, Dame li avrebbe fatti pentire amaramente, uno per uno. Dopo un iniziale tentennamento, decise di optare per la Weber State University, scelta rivelatasi poi azzeccata. Quest’ultima, infatti, è stata per lui l’ideale trampolino per il grande salto: un contesto povero di tradizione e cultura cestistica, che mai prima di allora era stato guidato da un degno timoniere. Nella sua stagione da senior, mise su 24.5 punti, 5 rimbalzi e 4 assist di media. La ciliegina sulla torta, la mostruosa prestazione da 41 punti nella vittoria per 91-89 contro la San José State University, dopo due overtime ed un super canestro segnato allo scadere. Il suo nome sarebbe finito su diversi taccuini importanti, senza essere mai più cancellato.

Si parla sempre troppo poco di questo ragazzo, almeno fino a metà gennaio. Da lì in avanti, con l’avvicinarsi dell’All-Star Weekend, è un crescendo inesorabile di violenza e vittime mietute sul campo. Il meglio deve ancora venire, dunque. Una vittima nobile il nostro Dame ha già provato a mieterla, ma senza successo, nel mese di dicembre. Trattasi dei Golden State Warriors, compagnia teatrale shakespeariana che infiamma la maggior parte dei cuori californiani (e non). Ogni anno la stessa identica drammaturgia: vede il gialloblu dei Warriors, si trasforma nel villain della pièce. Al netto di una media di 25.5 punti, 6.7 assist (siamo migliorati rispetto ai tempi di Oakland High School, eh Dame?) e 4.6 rimbalzi ed un PER di 24.03, la sua seconda miglior prestazione stagionale (a livello di cifre) è incasellata in data 12 novembre 2017, indovinate un po’ contro chi? Quelli dei 4 km di distanza, quelli belli, ricchi e profumati. I primi tre colpi della sua partita sono stati emblematici di quello che è il poliedrico talento di mister Dame Lillard.

Primo colpo d’ascia: discesa con la mano sinistra lungo la parte sinistra del campo, crossover fulmineo davanti ad un Klay Thompson correttamente posizionato in difesa e partenza con la mano destra, con un delicatissimo layup mancino a dipingere i due punti.

Secondo colpo: Pat Connaughton in palleggio, blocco cieco sul lato debole di Meyers Leonard e uscita immediata di Dame. Lettura del posizionamento del difensore (Swaggy P, in questo caso specifico), lieve accenno di jab step e baaaaang! Tripla scagliata a sangue freddo davanti alla propria vittima.

Terzo colpo prima della resa: errore dei Warriors e transizione immediata Blazers guidata da Dame. Ancora una volta, con l’obiettivo di non limitarsi a segnare, ma di farlo con stile. Una moderna evoluzione del dai-e-vai, di cui Dame è un pregevolissimo interprete moderno: il “dai-e-stai”. Passaggio per Evan Turner (che era in arrivo a rimorchio sul lato sinisto del campo) in taglio verso l’area e palla immediatamente restituita nelle mani del nostro villain, messosi nel frattempo in visione per scoccare la tripla. Nessun Warrior si accoppia con lui, medesimo risultato: baaaang!

Quella partita i Blazers l’avrebbero poi persa con il punteggio di 104 a 111, nonostante i 39 punti (5/13 da tre punti e 10/11 ai liberi) del loro uomo franchigia.
Il prossimo 14 febbraio andrà in scena il secondo capitolo della saga del 2017/2018, e non vorremmo perdercelo per nessuna ragione al mondo. E se doveste aver dubbi sul livello di motivazione di Dame quando affronta i Warriors:

Abbiamo imparato a conoscere Lillard nel corso di queste sue prime cinque stagioni nella lega, e se c’è qualcosa che casca all’occhio più di altro, è la sua tendenza a partire sempre lento nelle partite, la sua volontà di studiarne il flusso con occhio critico, per poi metterci la propria firma negli ultimi minuti di partita, con un vero e proprio colpo di teatro. Chiedere agli Houston Rockets della stagione 2014/2015 per conferma: a partire da quella serie di playoff il suo nome sarebbe finito su diversi taccuini in giro per il mondo. Dopo 14 (!!!) anni di scellerate scelte in sede di Draft e stagioni poco felici, la franchigia dell’Oregon superava finalmente una serie di PO. Le sue urla verso la folla adorante sono l’istantanea della sua carriera, per il momento.

Parliamo di un ragazzo di 28 anni, che ha da poco tempo raggiunto il suo prime. Ma non è solo di questo che stiamo parlando. Le sue doti umane sono eccellenti, almeno quanto quelle tecniche. In occasione di alcune interviste rilasciate nel maggio 2015 (prima dell’inizio di quei Playoff), le ricorrenti risposte con il pronome “noi”, pur di fronte a domande dirette a lui in prima persona, ne hanno evidenziato la marcata tendenza a porre in secondo piano l’Io, in favore del successo del collettivo. L’essere cresciuto in un ambiente ostico come quello di Oakland lo ha indubbiamente segnato, da questo punto di vista. I pomeriggi passati a giocare a football o a basket con i suoi cugini per le strade infestate dalle gang locali, non dev’essere stato per nulla facile. Regola numero uno per sopravvivere: prendersi cura l’uno dell’altra, spalleggiandosi nei momenti critici. E se qualcuno di loro si fosse trovato in una qualche situazione spiacevole, poteva esser sicuro che sarebbero arrivati gli altri  in suo aiuto (e possiamo scommettere che sia accaduto più di una volta). Uno per tutti, tutti per uno: era così che funzionava nel clan Lillard, secondo gli insegnamenti del signor Houston Senior.

Dopo un inizio di stagione a rilento e la svolta data dal match contro i Warriors, di cui si è raccontato in precedenza, le prestazioni del fenomeno di Oakland sono progressivamente salite di livello, sino alla svolta avvenuta tra gennaio e febbraio: in questa prima metà del mese, le sue medie sono di 28.2 punti (erano 25.1 a gennaio e 24.9 a dicembre), 7.6 assist (nel mese di gennaio era a quota 7 di media) e 3.8 rimbalzi, con un miglioramento anche nei tiri liberi tentati e segnati (6.0 su 6.4, rispetto ai 5.2 su 5.8 di gennaio). Questa volta, tali prestazioni nascono da un mood positivo (e, di base, quando c’è positività si può lavorare in maniera più costante e produttiva, liberi dal “saliscendi” emotivo del mood malinconico). Ottenendo la convocazione per l’All-Star Game di Los Angeles di quest’anno, ha potuto, infatti, scongiurare il fantasma di un record negativo: diventare il primo giocatore nella storia con almeno 25 punti di media a non essere nominato All-Star per tre stagioni consecutive.

Molti di noi hanno ancora negli occhi ciò che è successo due stagioni fa, quando un indiavolato Damian Lillard si è reso protagonista di quattro partite in fila da, rispettivamente, 41 punti e 11 assist (contro Washington), 50 punti e 5 assist (contro Toronto), 20 punti e 2 assist (contro Boston) e la bellezza di 51 punti e 7 assist (guarda caso, contro Golden State) al rientro da l’All-Star Break. I suoi colleghi John Wall, Kyle Lowry, Isaiah Thomas e Steph Curry nulla hanno potuto contro la furia del figlio di Oakland. Lo scorso anno, nel mese successivo alla Partita delle Stelle le sue statistiche recitavano invece: 31.2 punti con il 49% dal campo ed il 44% da tre punti. L’NBA, terrorizzata, non poteva che prendere atto del suo attuale status di All-Star a tutti gli effetti (pur in una Western Conference che rimane ultra-competitiva) ed assecondare il suo desiderio di gloria.

Ad una settimana esatta dalla serata di apertura dell’ASG 2018, Dame ci ha tenuto a sottolineare il suo attuale stato di forma, e quanto realmente fosse meritata quella convocazione finalmente ottenuta. Libera da scorie negative e da desideri impuri di vendetta, la vena creativa di Lillard ha superato qualsiasi limite, dando vita ad un vero e proprio capolavoro cestistico: 50 punti segnati in faccia al mondo intero con una facilità disarmante, conditi da 6 assist, un “discreto” 8/13 da tre punti (WHAT?!), 10/10 dalla lunetta ed un complessivo 61.5% dal campo (AH, OK). Tutto ciò, nella cornice della capitale californiana.

I più attenti, saranno di sicuro rimasti colpiti dall’encomiabile lavoro difensivo compiuto da Lillard sul suo talentuoso omologo De’Aaron Fox, costretto a soli 13 punti, con un magro 3/9 dal campo ed un ancor più magro -21 di plus/minus. Tanta roba, tenendo conto del fatto che scivolamenti laterali perfetti (con le gambe ben piegate ed il corpo posizionato alla perfezione) e palle rubate da enciclopedia (temporeggiamento utile a leggere in anticipo la scelta offensiva dell’attaccante e conseguente furto pulitissimo del pallone) non siano mai stati il suo pane quotidiano. Sul versante offensivo, invece, ha sciorinato, oltre al suo solito repertorio di triple dal palleggio da “distanza Curryana-Lillardiana” (con il difensore rigorosamente incollato), delle perfette letture del pick&roll (sia in fase di transizione che di difesa schierata), dando spesso la possibilità al rollante di concludere indisturbato o al tiratore appostato in angolo di bombardare efficacemente (i 15 punti con 2/3 da tre di Mo Harkless ed i 13 punti di Shabazz Napier con 3/3 dall’arco sono lì a dimostrarlo).

Noi abbiamo fiducia nel fatto che questo tipo di prestazioni possa avvicinarsi a diventar la norma, per quanto riguarda la pulizia delle letture offensive e l’applicazione difensiva. E che, finalmente, il ragazzo di Oakland possa deporre la sua maschera tragica da antagonista, elevandosi ad eroe positivo di quella meravigliosa pièce che è l’NBA contemporanea.

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