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Se Trump ci divide

Donald Trump ha recentemente usato lo sport come veicolo per promulgare i suoi ideali di disuguaglianza, segregazione e supremazia bianca. Chris Paul, Stephen Curry, LeBron James e altri hanno detto NO.

Esplosivo al quale serviva solo una scintilla per esplodere, l’argomento “Visita alla Casa Bianca” ha fatto scrivere fin da quando Donald Trump si è insediato alla presidenza degli Stati Uniti. Giovedì, il coach dei Golden State Warriors, quello Steve Kerr che abbiamo conosciuto come fine stratega e pungente commentatore, ha annunciato lo svolgersi di una riunione tra giocatori per decidere se andare o meno, durante l’annuale trasferta a Washington D.C. per affrontare gli Wizards, alla Casa Bianca. Da quando un uomo razzista, xenofobo e misogino si è seduto nello Studio Ovale, infatti, tanti americani si sono interrogati sui valori fondativi di una Nazione in cui spesso la libertà sta al dì sopra di ogni altra cosa. Parlare di un americano significa parlare di afroamericani, di immigrati italiani, polacchi o irlandesi; di nativi americani, di popoli provenienti dal Centro America in cerca di un futuro migliore. Tante etnie, un solo popolo. Patria, un’uguaglianza tra bianchi e neri che non rimanga solo su carta, diritti per uguali opportunità lavorative, sempre più labile confine tra coloro di cui mi posso fidare e coloro che meglio di no: tutti temi che sono, da diversi mesi a questa parte, all’ordine del giorno in America.

Uno sconcertante background

Seguono alcune cose accadute appena prima o durante l’amministrazione Trump che fanno rivoltare lo stomaco a tutti coloro che non solo amano questo Paese, ma a tutti quelli che hanno una testa pensante. Magari non riguardano direttamente la polemica tra i vari giocatori NBA e Trump, ma hanno alzato il sopracciglio di molti, riempiendo una botte cui bastava una goccia per traboccare.

La Quicken Loans Arena di Cleveland, Ohio, prima di Gara 3 delle Finals 2016. (Credits: ftw.usatoday.com.)

-Kellyanne Conway è una dei consiglieri più vicini a Trump, oltre ad averne curato la campagna elettorale. Una secondo la quale i fatti alternativi sono un’altra versione della realtà, non più o meno vera, un’altra, perché di realtà ne sono notoriamente previste una per ogni giudicante dello stesso evento.

Il caso-Russia non si è levato dalla spalle di The Donald, e anzi continua ad essere una minaccia più seria del previsto.

-La tragica situazione tra Texas e Florida, devastati da uragani e piogge, metterebbe a dura prova qualsiasi Presidente (basti ricordare Katrina-Bush) e l’attuale è già il meno amato di sempre (per diversi sondaggi) e – non dimentichiamo – vinse le elezioni prendendo 3mln di moti in meno di Clinton (in America funziona un po’ diversa).

-E poi c’è la questione di un impenetrabile, grosso, alto, potente, affascinante muro al confine sud col Messico, per cui però si fatica a trovare i soldi, il che è ok perché questo muro non s’ha da fare.

-Come descrive alla perfezione il sempre ottimo Francesco Costa, una delle cose che deve farci pensare è il fatto che sostanzialmente tutti i problemi che Trump sta affrontando sono di natura endogena al suo stesso partito. Nessun democratico, nessun nordcoreano, nessun marziano gli sta mettendo bastoni tra le ruote come gli scandali interni al suo stesso, infimo partito.

Chiudere qua la lista potrebbe evitare di seccarci totalmente la gola: per ulteriori schifezze, basta googlare fonti di notizie serie e scansare quelle sbagliate (una parola-chiave per ricerca? Charlottesville). In un’epoca in cui gli atleti sono personaggi pubblici a tutti gli effetti, essi si sono più volte detti in favore di manifestare le loro perplessità riguardo temi sociali. Il primo nell’epoca moderna fu forse Colin Kaepernick: l’ex quarterback dei San Francisco 49ers si inginocchiò durante l’inno per protestare contro i soprusi ai diritti degli afroamericani. Diversi colleghi NFL lo sostennero in questo silenzioso e pacifico tentativo di attirare l’attenzione su un reale e grave problema, tanto che il kneeling divenne un caso nazionale. (Attualmente Kaep è svincolato e, pare, 64 QB – due per ogni squadra – siano diventati migliori di lui in un’estate. Che progressi!) Tanti puntarono il dito verso le star NBA: nonostante i milioni di dollari guadagnati, nessuno che alzasse un dito sfruttando la privilegiata situazione mediatica in cui si trova.

Kaep. (Credits: natepyle.com.)

Il fiume esonda

Stephen Curry e Kevin Durant, già mesi fa, avevano alluso al non-far-visita alla White House, senza che ne scoppiasse un caso. Lo scorso venerdì, al Media Day dei Golden State Warriors, l’assassino con la faccia da bambino ha detto che:

“Agendo e non andando [in visita alla Casa Bianca], si spera di ispirare un cambiamento per quanto riguarda ciò che si tollera in questa Nazione e ciò che si accetta e ciò a cui offriamo il nostro sguardo più cieco.

Non si tratta solo di non andare. Ci sono cose che devi per forza di cose fare per diffondere alle masse il messaggio. Si può parlare di tutte le diverse personalità che hanno detto o fatto cose, da Kaepernick a ciò che è successo a Bennett [Michael, una delle stelle che compongono la difesa dei Seattle Seahawks. Dopo Charlottesville, durante l’inno si siede. Lo scorso agosto ha avuto un incidente con la polizia sui cui si sta facendo luce], passando per tutti gli esempi di ciò che sta succedendo in questa Nazione, cose che dovremmo cambiare. E tutti noi stiamo provando a fare ciò che possiamo, usando i nostri binari di comunicazione, sfruttandole nostre opportunità per far luce su tutto questo.

… Non penso che il nostro non-andare alla Casa Bianca renderà tutto miracolosamente migliore… [ma] questa è la mia occasione per esprimermi.”

A parlare è stato uno che, come si fa notare qui, ha sempre spianato la strada attraverso l’esempio, non la voce. Finché non è arrivato Trump. Kevin Plank, CEO del famoso brand che ha Steph come uomo-immagine, parlò in Febbraio di Trump come un “real asset” per l’azienda. Curry si è detto d’accordo con la definizione, a patto che si togliessero le lettere finali ‘et’ (real ass è traducibile con, ehm, vero coglione). Sembra che, insomma, dopo un leggero: “Non sono interessato a visitare alla Casa Bianca” lo scorso giugno fresco di anello, Steph si sia sentito in obbligo di rincarare la dose. E stavolta sì che ne è scoppiato un caso.

Il Pres twitta come i bambini lanciano oggetti, e facesse solo quello…

I tweet di Trump hanno spesso fatto scalpore. Per multiple sources, pure i suoi più vicini collaboratori non solo non vengono messi al corrente di ciò che sta per scrivere, ma spesso ne rimangono allibiti, sconcertati. Quando sono poi chiamati a rispondere per Trump di quei tweet, provano a smorzare gli animi, trovare una mediazione. Per poi, magari un’ora dopo, leggere un altro tweet di Trump in cui ripeteva con ancora più forza ciò che aveva detto in precedenza.

Potus ha nuovamente deciso di usare Twitter per rispondere al figlio di Dell: “Andare alla Casa Bianca è considerato un grande onore per una squadra che ha vinto il titolo. Stephen Curry sta esitando, quindi l’invito è ritirato!”. Il che lascia aperti diversi interrogativi, che è ciò che succede quando usi una piattaforma limitante a 140 caratteri per annunci ufficiali (o più o meno tali, Trump ha spesso mutato opinione). Tipo: l’invito era già stato mandato? (In due occasioni, l’informatissima reporter di ESPN Ramona Shelburne ha detto che no, nessun invito era già stato inviato). L’invito è ritirato per Steph o per tutta la squadra di Steph? E la squadra di Steph che farà, se il suo miglior giocatore non va? La visita di una squadra vincitrice (non solo i campioni NBA, ma anche i campioni NCAA – basket, maschile e femminile, e football – NFL, NHL…) di un importante titolo è da sempre considerata un evento: negli anni passati sono venuti fuori esilaranti sketch, come quella volta tra Obama, gli Spurs e Belinelli. Insomma, è sempre stato un momento rilassato e felice – andatevi a ripescare le storie Snapchat di Richard Jefferson anno scorso. La tradizione dura da 54 anni, da quando JFK invitò i Celtics 1961-1962: non è più l’NBA dei nostri padri.

(Credits: CNN.com)

Trump, però, non si è limitato a twittare contro la decisione di un libero cittadino americano, che attraverso il proprio libero arbitrio ha detto “No grazie” ad un presidente così. Venerdì sera, Trump era in scena ad un raduno politico in Huntsville, Alabama. Durante il discorso, si è rivolto a muso duro contro i giocatori NFL che – secondo lui – mancano di rispetto alla bandiera, quindi alla Nazione, quindi a lui. Questi giocatori afroamericani, ai quali recentemente si è accodato un collega in MLB, sarebbero secondo l’UA “da licenziare o sospendere“, come dice in un tweet recente. Quello stesso tweet ne segue uno rivolto al Piccolo Uomo Razzo, ovvero il dittatore nordcoreano Kim, e un altro rivolto a Roger Goodell (l’Adam Silver NFLiano) in cui chiede al commissioner di farli alzare sti giocatori durante l’inno. Poche ore dopo essersi scagliato contro Curry, invece, l’UA ha comunicato che:

“Se un giocatore vuole il privilegio di fare milioni di dollari in NFL, o in ogni altra Lega, lui o lei non dovrebbero avere il permesso di mancare di rispetto alla nostra Grande Bandiera Americana (o Nazione) e dovrebbero stare in piedi per l’Inno Nazionale. Altrimenti, SIETE LICENZIATI! Trovatevi qualcos’altro da fare!”

É un po’ il riassunto di ciò che ha detto in Arizona, dove stava supportando l’elezione del senatore repubblicano Luther Strange, tra l’altro uno dei 22 colleghi che scrissero a Trump parlandogli dell’urgenza di ritirarsi dagli accordi di Parigi sul clima.

“Non vi piacerebbe vedere un proprietario di una franchigia NFL licenziare seduta stante il figlio di puttana che non si alza durante l’inno, che manca di rispetto alla nostra bandiera? Tanti proprietari lo stanno per fare, tanti sono miei amici. Ciò che non sanno è che, la settimana seguente, sarebbero le persone più popolari d’America.”

Trump durante il discorso in Arizona. (Credits to abcnews.go.com)

Sono tornati subito alla mente i legami (purtroppo più reali che presunti) del presidente con Robert Kraft, il proprietario dei campioni in carica di New England, che però ha fortemente criticato Trump dopo i suoi commenti sulla NFL. Parlare male della principale (se non unica) Lega di football professionistico del proprio Paese, la stessa di cui si nutre la base del suo elettorato sempre più bianco e sempre più incazzato, potrebbe essere una cattiva mossa. E ancora twitta:

“La NFL è in un BRUTTO PERIODO sia per quanto riguarda gli ascolti televisivi che per i biglietti venduti. Partite noiose, ok, ma molti amanti della nazione prendono le distanze. La NFL dovrebbe essere dalla parte degli Stati Uniti.”

NFL commissioner Roger Goodell, che a lungo è stato indeciso se supportare o mettere alla gogna Kaepernick, ha risposto così a Trump:

“Commenti che generano spaccature come questi dimostrano una malcapitata mancanza di rispetto per la NFL, il nostro bellissimo gioco e tutti i nostri giocatori, e un fallimento nel capire l’enorme sforzo verso il bene che i nostri giocatori e le nostre squadre rappresentano nelle rispettive comunità.”

Insomma, Donald Trump si è schierato contro tutto uno sport, tutta una fan-base, tutto un enorme movimento, uno dei due più popolari in America. Ha chiamato figli di puttana quei giocatori che si inginocchiano durante l’inno (per Draymond Green le parole del presidente “non hanno assolutamente senso”). Niente di nuovo, tuttavia, per uno che si era già apertamente schierato contro un genere (le donne), un’etnia (quella afroamericana, tra le altre) e intere nazioni (Messico e Cina, tra le altre).

Arrivati a questo punto, tanti campioni NBA hanno detto basta.

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