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Dallas Mavericks

La crescita di Harrison Barnes

Harrison Barnes forse non è ancora una stella, ma sicuramente sta dimostrando di essere sulla buona strada. Dove può arrivare?

L’NBA è indubbiamente e prima di ogni cosa la Lega delle Superstar. LeBron James, Curry, Westbrook, Harden, Leonard e compagnia sono la spina dorsale del campionato più bello del mondo, i gioielli della corona di quello che può considerarsi (a buon diritto) la massima espressione disponibile nel mondo dello sport entertainment. Ovvio che siano loro a catalizzare la maggior parte dell’attenzione, ma c’è un meraviglioso mondo appena sotto questa scintillante superficie in cui si muovono le cosiddette stars in the making, ovverosia quei giocatori su cui si punta tutto nella speranza che siano i prossimi “prescelti” in grado di guidare una franchigia verso la terra promessaIn un mondo in cui i ricavi si moltiplicano ogni anno ad un ritmo vertiginoso, la chimera di ogni franchigia è infatti sempre di più rappresentata dalla ricerca di quei franchise players in grado di trasformare le squadre di media-bassa classifica in pretendenti al titolo.

In casa Dallas Mavericks, questo problema negli ultimi 15 anni è stato risolto grazie ad un certo biondino, che partendo da una semi-sconosciuta squadra dell’A2 tedesca è arrivato fino alla stratosferica quota di 30.000 punti nella NBA. Ma dopo quasi vent’anni di onorata militanza, anche per Nowitki sta per arrivare il momento di appendere le scarpe al chiodo. Di norma (citofonare a casa Lakers del post Bryant) queste situazioni sono il preludio a diversi anni di risultati mediocri, nell’attesa a volte vana, di estrarre dalla difficile miniera del draft un nuovo diamante grezzo su cui iniziare a ricostruire la strada verso il vertice.

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A Dallas però, le draft picks non sono mai state materiale tenuto in particolare considerazione, perlomeno da quando Donnie Nelson si è assiso alla guida del front office dei Mavs. Termini come rebuilding e tanking nel glossario del proprietario Mark Cuban sono considerati alla stregua delle parolacce. Questa filosofia “anti-Hinkie” ha fatto sì che dal rocambolesco titolo NBA del 2011 in poi, i Mavericks siano rimasti in una specie di limbo: troppo forti (e soprattutto troppo ben allenati) per adagiarsi nei bassifondi della Lega, ma troppo scarsi per ambire nuovamente a farsi strada in quella vasca di squali che da anni sono i playoff della Western Conference.

L’attuale situazione è anche dovuta al fatto che tutti i recenti tentativi di far arrivare in Texas un free agent di primo piano si sono arenati miseramente. Per far giusto un breve riepilogo, dal 2012 ad oggi i giocatori che hanno rifiutato le offerte della premiata ditta Cuban-Nelson-Carlisle rispondono ai nomi di: Deron Williams (arrivato comunque in Texas ma solo in seguito e in condizioni decisamente diverse), Dwight Howard, Carmelo Anthony, DeAndre Jordan, Hassan Whiteside e Mike Conley.

Frustrata da questi rifiuti la dirigenza texana ha dovuto quindi spesso ripiegare su bersagli alternativi, non sempre (per usare un eufemismo) di pari qualità. I vari esperimenti fatti con Kaman, Brand, Collison, Mayo, Dalembert, Monta Ellis e Bogut hanno infatti avuto risultati altalenanti, se non addirittura fallimentari. Ma nel corso di questi anni sono arrivati anche giocatori di buon livello, a testimonianza della qualità delle scelte di chi gestisce una baracca che nonostante tutto non ha una stagione perdente da 16 anni (!). Wesley Matthews, Seth Curry, “Jogi” Ferrel e il nuovo arrivato Nerlens Noel sono oggi i giocatori sui cui Carlisle farà affidamento nelle stagioni a venire per costruire il post-Nowitzki.

Ma il pezzo più pregiato di tutti di questo progetto di rinnovamento risponde al nome di Harrison BarnesL’ala nativa di Ames in Florida è al quinto anno nella NBA ed è sempre stato un prospetto di talento, che si è distinto fin dall’inizio dei suoi due anni a North Carolina (ACC Rookie of the Year nel 2011), pur senza mai riuscire a raggiungere la Final Four, bloccato entrambe le stagioni alle Elite Eight prima da Kentucky e poi da Kansas.

L’ex Tar Heels arriva a sostituire Chandler Parsons, attualmente accasato presso l’infermeria dei Memphis, di cui eredita lo spot di ala piccola titolare seppur con caratteristiche decisamente diverse. Parsons è (era) un miglior tiratore da fuori e un passatore decisamente superiore. Barnes invece è un migliore bloccante sui P&R ed eccelle (dopo ci torneremo) come giocatore di isolamento. Certo che se facciamo un confronto sui dati di questa stagione, il paragone è decisamente impietoso.

Barnes vs Parsons

Con il senno di poi, la scelta di rinunciare a Parsons e di puntare su Barnes sembra infatti essere stata un clamoroso colpo gobbo. I continui problemi fisici di Parsons non gli hanno più permesso di esprimersi al suo meglio, e in questo anno a Memphis il suo rendimento è crollato definitivamente. E così, gli stessi 94 milioni che ora i Grizzlies rimpiangono amaramente di aver speso per Parsons, sono stati da Dallas investiti nel Black Falcon, con un quadriennale che suona come una vera e propria investitura a pietra angolare del futuro dei MavericksSettima scelta assoluta del Draft del 2012, fino allo scorso anno Barnes è sempre sembrato un giocatore pronto ad esplodere, se solo avesse avuto più spazio e più palloni in mano per poter mettere in mostra tutto il suo potenziale.

Ma a Golden State questo non era possibile, stante la presenza di superstar come Curry, Thompson e Green. Così, quando i Warriors hanno colto al volo la possibilità di aggiungere quel discreto giocatore che risponde al nome di Kevin Durant, Barnes si è guardato intorno alla ricerca del posto migliore in cui dimostrare il suo reale valore e l’offerta di Dallas è stata raccolta al volo. In questa sua prima stagione da protagonista, Harrison Barnes sta rispondendo piuttosto bene alle attese e i suoi numeri sono nettamente i migliori della sua giovane carriera. Certo, il suo ruolo nella Baia era decisamente diverso, ma i progressi statistici sono indubbiamente degni di nota.

Harrison Barnes Stats

Il Barnes di Golden State era sostanzialmente uno spot-up shooter che si appostava sul perimetro per ricevere gli scarichi dei più quotati compagni, con occasionali licenze di andare al ferro sfruttando la poca attenzione a lui riservata dalle difese avversarie. Ruolo peraltro svolto sempre egregiamente, a parte le pessime NBA Finals della scorsa stagione. Il Barnes di Dallas è un giocatore completamente diverso, divenuto velocemente la prima opzione offensiva della squadra. Le sue doti atletiche e un ottimo ball handling gli permettono di battere in velocità gli avversari più grossi di lui e di tirare sopra la testa dei difensori più piccoli, attaccando il ferro con grande decisione ogniqualvolta si presenti l’occasione buona.

Quando parlo di doti atletiche si tratta in sostanza di essere in grado di fare questo.

Nella sua nuova veste di go-to-guy, il suo volume di conclusioni è ovviamente aumentato parecchio (tira circa 7 volte in più a gara rispetto alla passata stagione), pur senza far calare di molto la sua efficienza generale (la percentuale complessiva dal campo è rimasta sostanzialmente invariata, anche se la TS% è un po’ calata a causa di un abbassamento delle percentuali da oltre l’arco). Analizzando invece le differenze nella sua mappa di tiro, emergono alcune tendenze importanti. Intanto sono calati in modo drastico le sue conclusioni dagli angoli, in virtù di un diverso posizionamento in campo, mentre sono più che raddoppiate le conclusioni (con un considerevole incremento anche dell’efficienza) dal centro dell’area e dal gomito sinistro.

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Sopra la mappa di tiro di un role player di lusso, sotto abbiamo quella di un go-to-guy senza grande rispetto per la cosiddetta “Moreyball”.

Paradossalmente, in un basket moderno dove i tiri dal mid-range non sono visti così bene, Harrison Barnes si nutre e prospera proprio di quello. Anzi, non solo lui ma tutti i Mavericks giocano un basket controcorrente rispetto a molte altre squadre della LegaSono penultimi per PACE (94.0 possessi a gara) appena un’inezia sopra i Jazz, ultimi per punti in transizione e secondi, dietro ai Cavs, per l’impatto percentuale degli isolamenti nel sistema offensivo.

In questo gioco molto old-style il Black Falcon ci sguazza che è un piacere, in particolare per quanto riguarda il gioco in isolamento. In tutta la Lega, solo Jamal Crawford sfrutta percentualmente di più questo tipo di giocate, ma rispetto alla guardia dei Clippers Barnes preferisce molto di più partire dal post medio (preferibilmente sul lato sinistro del campo, ma non solo), posizione dalla quale è in grado di andare sia a destra che a sinistra con uguale efficacia.

Qui Barnes parte dalla sua zona prediletta al gomito, sfruttando poi il vantaggio fisico su John Wall per girarsi sulla spalla destra e andare comodamente a concludere al ferro.

Qui invece riceve sul lato opposto, fronteggia Sam Dekker e va a chiudere a centro area con un tiro in avvicinamento. Dal post medio l’ala dei Mavericks vanta un campionario di movimenti davvero completo.

Se vogliamo andare un po’ più in profondità elettroanalisi dei dati, con 0.92 punti per possesso la sua efficacia in queste situazioni è buona ma non eccezionale, perlomeno se paragonata ai migliori in questa categoria (Irving, Thomas, Curry, Lillard e Durant sono tutti almeno un decimo di punto sopra come efficienza). Il motivo è riconducibile sostanzialmente con una sola spiegazione: Barnes va in lunetta troppo poco. E non solo in situazioni di isolamento, ci va proprio poco in generale.

Una recente e interessante analisi ha provato a dare qualche spiegazione a questa tendenza, senza peraltro approdare ad una risposta univoca. In parte Harrison Barnes non ha ancora sviluppato uno status per cui gli vengano attribuiti fischi da superstar, oppure è il suo stile di gioco ad essere troppo “pulito” e deve imparare a far vedere un po’ meglio i contatti (un corso accelerato a casa Ginobili gli farebbe sicuramente comodo…). In ogni caso è probabile che sotto questo aspetto i suoi dati siano destinati a migliorare nel tempo, con il crescere dell’esperienza e della considerazione da parte degli arbitri.

In sostanza, nel piano tattico dei Mavericks, Barnes sta giocando a-la-Nowitzki, perlomeno per quanto riguarda le zone del campo che va ad occupare o i giochi che vengono chiamati per lui. Carlisle lo utilizza infatti spesso da numero 4 (con Dirk schierato come centro) in un quintetto leggero che costringe gli avversari a lasciare l’area sguarnita alle penetrazioni degli esterni e dello stesso Barnes.

Qui Nowitzki non è in campo ma la presenza di Powell da finto centro ne svolge la medesima funzione: area sgombra e penetrazione di Barnes, che sigilla la vittoria dei Mavs a casa Clippers.

Per un giocatore che supera di poco i due metri, giocare da ala forte può presentare però anche degli svantaggi, soprattutto quando in difesa bisogna marcare giocatori più alti e grossi che vogliono farti pagare quanto subito nell’altra metà campo. Ma Barnes regge sorprendentemente bene questo tipo di situazioni (non è invece così solido quando deve marcare giocatori piccoli e veloci), risultando un solido difensore di post basso anche in situazioni di evidente svantaggio fisico.

In questa partita Barnes è finito spesso a marcare Griffin, il quale pensava forse di poter abusare dell’avversario sfruttando la sua maggiore forza fisica. Ma Barnes dimostra di saper reggere il confronto senza cedere di un centimetro.

In sintesi, su entrambi i lati del campo il Black Falcon si sta dimostrando un giocatore solido, che sta mantenendo le attese e dimostrando di valere i tanti soldi investiti su di lui. Non sono però tutte rose e fiori, e se dopo così tanto tempo i tifosi di Dallas dovranno essere testimoni di una stagione perdente è anche perché il gioco di Barnes non è certo esente da difetti.

Uno dei principali aspetti in cui l’ex Tar Heels deve ancora crescere parecchio è sicuramente la visione di gioco. Qui sì che i Mavs possono rimpiangere le capacità di passatore di Parsons, perché i soli 1,5 assist che Harrison distribuisce in quasi 36 minuti sul parquet sono davvero poca roba. A maggior ragione se dovesse migliorare ancora come realizzatore (e quando Nowitzki sarà ufficialmente tornato a bere birra nelle Bräuhaus di Würzburg), le difese tenderanno sempre di più a raddoppiarlo e Harrison Barnes dovrà imparare ad alzare la testa per scaricare il pallone al compagno, a meno di non voler vedere crollare le sue percentuali penalizzando la fluidità in attacco della sua squadra. Inoltre, escluse le situazioni stanziali di cui sopra, rispetto al passato la sua applicazione difensiva è un po’ calata e Carlisle si aspetta da lui un contributo importante anche sotto questo aspetto.

Ma dopo tanti bersagli falliti durante le varie offseason, finalmente i tifosi biancoblu possono essere soddisfatti, perché Harrison Barnes è un giocatore vero, ampiamente in corsa per il premio di Most Improved Player di questa stagione, oltre ad essere anche una persona dotata di grande sensibilità, che ha da subito fatto capire di essere qui per lasciare un segno anche fuori dal campoUnico membro della Nazionale USA vincitrice alle Olimpiadi di Rio a non essere stato All Star in questa stagione (ma può consolarsi con un bel panino, Barnes non avrà forse ancora convinto tutti gli scettici della prima ora, ma intanto sta disputando una stagione molto solida per un venticinquenne con ancora parecchio upside. Se riuscirà a limare i suoi difetti e ad ampliare il suo bagaglio tecnico per rimediare alle carenze, i Mavericks avranno finalmente trovato un punto d’appoggio su cui ripartire alla conquista della terra promessa.

Giorgio Barbareschi

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