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Dwight Howard: tra decadenza e rinascita

Dwight Howard ha tutta l’intenzione di tornare a fare il supereroe. Per il momento però si limita ad essere il centro degli Atlanta Hawks: cerchiamo di capire se ci sono i presupposti per poter indossare nuovamente tuta e mantello.

Passare da una realtà anarchica come quella di Houston all’organizzazione capillare della corte di Mike Budenholzer non dev’essere stato certo facile. A Houston il decadente Dwight ha raschiato il fondo della sua carriera cestistica, ma analizzando meglio la situazione della franchigia texana risulta evidente come il flop dei Rockets del duo Harden-Howard non sia dipeso esclusivamente da quest’ultimo. Dopo la buona prestazione offerta nel corso dei Playoff 2016, la squadra è bruscamente caduta in un baratro dal quale non è più a risalire: coach Kevin McHale, come spesso accade, è stato il primo a fare le valigie da buon capro espiatorio, ma anche sotto la guida di J.R. Bickerstaff i miglioramenti hanno tardato ad arrivare. Se aggiungiamo anche l’anarchia tattica di James Harden, autosufficiente in attacco e assente ingiustificato in difesa, il rapporto mai decollato tra le due stelle della squadra e l’arrivo sulla panchina dei Rockets di Mike D’Antoni (lui e Howard si sono conosciuti a Los Angeles ma non sono esattamente amici per la pelle) non era poi troppo difficile prevedere la partenza di Howard verso altri lidi. Era necessario voltare pagina ed accasarsi in una franchigia più ordinata, in modo da poter esprimere il proprio potenziale grazie all’aiuto di compagni già rodati e molto meno accentratori del barbuto James.

Tuttavia, a giudicare dai risultati in casa Hawks il passaggio di consegne tra Horford e Howard non ha portato i frutti sperati: a fronte di 32 partite giocate il record attuale registra un perfetto equilibrio tra vittorie e sconfitte, mentre lo scorso anno a questo punto della stagione gli uomini di coach Budenholzer avevano portato a casa 20 vittorie e solo 12 sconfitte. La responsabilità non è comunque un’esclusiva di Howard, visto che in estate anche Jeff Teague ha fatto le valigie lasciando la regia al giovane Dennis Schröder.

Senza perderci in ulteriori chiacchiere passiamo all’analisi di alcune azioni di Dwight Howard.

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Iniziamo dagli aspetti positivi. Come dimostrato delle immagini, l’Howard 2016-2017 ha ancora qualcosa in comune con il Superman ammirato in Florida: Schröder, Millsap e lob per Howard, che fa il suo dovere come pochi altri. Da maestro dell’alley-oop non ha problemi a mettere a reperto due punti facili, oltre a piazzare ottimi blocchi e catturare rimbalzi a volte non semplicissimi, ma guai a fargli costruire l’azione.

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Il perché è presto detto: oltre alle doti di passatore non proprio eccezionali, in alcune occasioni dimostra di non possedere la lucidità necessaria per poter anche solo far ripartire l’azione. Evidentemente Rubio lo sa bene, dato che invece di rientrare in difesa preferisce attendere che Howard consegni il pallone a Schröder per poi rubarglielo e servire LaVine. Da notare che sono passati appena ottanta secondi dall’inizio del match: in questo caso non c’è stanchezza che tenga, è inammissibile che un giocatore della sua esperienza commetta errori tanto banali

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Stessa partita, stessi protagonisti, nel bene e nel male. LaVine conduce un contropiede piuttosto blando e serve Rubio dall’altra parte del campo. A causa del tardivo rientro di Howard, Sefolosha è suo malgrado costretto ad occuparsi di Towns, mentre Muscala tiene d’occhio Dieng. Con i big men avversari tenuti sotto controllo dai suoi compagni, Howard deve solo preoccuparsi di gestire Andrew Wiggins, appostato sulla linea dei tre punti. Senza un reale motivo, dato che i suoi compagni non sembrano voler cambiare le marcature, Howard si avvicina al pitturato e consente a Wiggins di prendere la mira per una tripla che va inesorabilmente a bersaglio. Per tutta la durata dell’azione Howard dà l’impressione di vagare senza meta per la propria metà campo, mettendo in difficoltà i compagni e lasciando indisturbato il suo uomo. Purtroppo per gli Hawks non si tratta di un caso isolato.

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Passiamo ora alla partita di stanotte, che ha visto gli Hawks avere la meglio sui New York Knicks  dopo un overtime. Mattatore della serata è stato proprio Dwight Howard, che con i suoi 16 punti e 22 rimbalzi ha messo la firma sulla vittoria di Atlanta. Eppure, anche in una serata positiva come questa non mancano alcune sbavature che avrebbero potuto compromettere l’esito della partita. Un esempio è l’atteggiamento di Howard dopo una palla recuperata dai Knicks: quando Rose recupera il pallone, compagni ed avversari corrono verso l’altra metà campo. Tutti tranne uno, che rimane immobile per una frazione di secondo per poi sbloccarsi quando è ormai troppo tardi. Tra l’altro, a concludere il contropiede è Joakim Noah, non certo un giovanotto fresco e scattante. L’indecisione appena analizzata viene però ridimensionata se confrontata con gli errori commessi durante l’overtime: il peggio deve ancora venire.

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Nei quattro secondi immortalati da questo video partecipiamo al match proprio come Howard, da spettatori. Jennings penetra in area e punta al ferro, salvo poi scaricare il pallone a Noah per due punti facili. A dire il vero, i suddetti punti non sarebbero stati poi così facili se Howard avesse avuto le energie e la concentrazione necessarie: è questo l’unico motivo in grado di spiegare la sua apatia nei confronti di Jennings prima e di Noah poi.

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Solo 20 secondi più tardi la scena si ripete. Howard torna al piccolo trotto dalla metà campo avversaria ed è troppo lontano dal canestro per poter pensare di prendere il rimbalzo della tripla di Jennings. Senza Howard a fare la voce grossa nel pitturato, è un gioco da ragazzi per Porzingis avventarsi sul pallone e schiacciare sopra un incolpevole Schröder. Anche in questo caso Howard appare poco lucido e non in grado di gestire al meglio le ultime energie rimaste, a differenza del giovane Porzingis, la cui età gli consente di non curarsi troppo di questi fattori.

Scarsa lucidità, range di tiro notevolmente limitato, troppe pause nel corso di una partita, sebbene si vedano ancora sprazzi dell’Howard che qualche anno fa dominava sotto le plance. Al di là di un piccolo infortunio che di recente l’ha costretto a saltare tre gare per infortunio, non sono molte le differenze tra l’Howard dello scorso anno e quello visto ad Atlanta finora. Il Dwight Howard ormai trentenne non ha più il totale controllo del suo corpo e riesce a dominare dal punto di vista atletico solo in sporadiche occasioni. Tuttavia, le pause autoconcesse rischiano di portare più danni che benefici alla squadra, che in occasione del match contro i Knicks ha rischiato di perdere a causa dei suoi errori sul finale, mandando in fumo la buona prova offerta a rimbalzo (con l’eccezione del tap-in di Porzingis analizzato pocanzi).

Per il momento sembra che sia stata la squadra ad adeguarsi al nuovo centro e non viceversa, il che può anche essere comprensibile dato che anche un giocatore della sua esperienza può aver bisogno di un periodo di adattamento, a maggior ragione in un’organizzazione corale come quella di Budenholzer. Bisognerà però stare attenti a non snaturare troppo il credo della squadra nel tentativo di andare incontro alle necessità di Howard: dev’essere quest’ultimo a fare il prossimo passo, cercando di assimilare i concetti tattici del coach e approfittare dell’ottima chimica che si è creata tra gli altri membri della squadra. Per muovere al meglio la palla bisogna correre in cinque, evitando di tenere il pallone incollato alle mani (letteralmente) per troppo tempo nel tentativo di aprire le difese avversarie. Potrebbero sembrare cose difficili, ma stiamo pur sempre parlando di un supereroe, no?

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HOWARD VS HOWARD

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