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Hall of Famer

L’NBA dei nostri nonni – Dolph Schayes, “NBA’s Dracula”

La storia di un grande giocatore dimenticato, Dolph Schayes, l’uomo che rivoluzionò il ruolo di ala grande prima delle ali grandi.

Transilvania. Solo il nome può far scorrere brividi freddi lungo la schiena. Perché alla Transilvania sono legate oscure leggende e superstizioni, le notti sono buie, rischiarate solo dal balenio dei lampi e bagnate di pioggia. Ci sono antichi castelli arroccati dalle porte cigolanti e foreste inesplorate e crudeli. Le storie raccontano di tremende battaglie, di indicibili carneficine, di foreste di morti impalati. La caligine è perenne, il sovrannaturale aleggia nell’aria. E, se non bastasse, le montagne di questa inospitale regione della Romania fanno da sfondo alla storia di un personaggio terrificante eppure affascinante come il conte Dracula. Un terribile vampiro, dagli inimmaginabili poteri. Una creatura leggendaria che, dopo essere nata dalla penna di Bram Stoker, è stato protagonista di innumerevoli riletture e rivisitazioni, tutte con un unico punto fermo: il paesaggio mozzafiato della Transilvania come scenario. Questa terra di misteri e sangue, di castelli e paure è però il punto d’origine anche di un’altra storia, quella che stiamo per raccontare. La storia di un grande dimenticato, la storia di un uomo con la sete di un vampiro, la storia di Dolph Schayes.

Schayes

Un panorama della Transilvania innevata; credits to: viaggi.nanopress.it via Google

Tina Michel era giovane quando la sua famiglia decise di trasferirsi negli Stati Uniti nel 1920. La Romania era diventata da poco uno stato indipendente, ma era difficile guadagnarsi da vivere, e scappare oltreoceano sembrava essere la soluzione più giusta. Tina non lo sapeva, ma mentre preparava le valigie, da qualche altra parte nel paese anche Carl Schayes iniziava il suo viaggio verso la terra dalle mille promesse. Per pura combinazione sia Tina che Carl andarono a vivere a New York, e fu qui che si incontrarono, da qualche parte nel Lower East Side. Si innamorarono quasi di colpo, si sposarono e nel giro di pochi anni avevano già la loro vita. Carl venne assunto come camionista dalla Consolidated Laundries, e di notte arrotondava con qualche lavoretto da tassista, mentre Tina lo aspettava nella loro casa del Bronx, che curava amorevolmente. Non erano certo ricchi, ma la loro era un vita semplice e felice. Una felicità che non fece che aumentare quando, il 13 maggio del 1928, nacque il loro bambino, Adolph. Un ragazzetto vivace che ben presto cominciò a farsi chiamare con l’abbreviazione Dolph dagli amici, forse anche perché le notizie che arrivavano dall’altra parte dell’Atlantico non mettevano il suo nome particolarmente in buona luce. E poi la sua famiglia era d’origine ebraica.

Nel periodo in cui Adolf Hitler dettava legge alla Conferenza di Monaco, preparandosi a gettare l’Europa nell’inferno di un’altra guerra, Dolph era un bambino di dieci anni, che se ne andava in giro per le strade del Bronx, non ancora il quartiere periferico e degradato che siamo abituati ad immaginare. Con lui c’era una banda di ragazzini più o meno della stessa età. Si facevano chiamare Trylons. Erano un gruppo di dieci amici che faceva le classiche cose che dei bambini fanno quando escono insieme il pomeriggio. Correvano in bicicletta, giocavano a stickball e, soprattutto, giocavano a basket. Il primo incontro tra Adolph Schayes e una palla a spicchi avvenne così, su un playground in cemento, nel quartiere più multietnico di New York. Fu un incantarsi reciprocamente. Nel giro di poco più di un anno Dolph e i Trylons divennero la squadra di quartiere più richiesta del Bronx. Non c’era partitella o torneo che si tenesse sui playground del quartiere durante i quali non si vedessero le facce affilate di quei dieci ragazzi. Era la situazione ideale per un bambino di quell’età: Dolph stava con gli amici, si divertiva, passava giornate intere con loro, non avrebbe voluto smettere mai. Cominciò ad amare il basket di un amore intenso. E intanto il suo fisico cresceva, cresceva a dismisura, tanto che, all’epoca della junior high school era già arrivato a misurare quasi due metri. Non era però soltanto una torre che spiccava fisicamente sugli altri, aveva tecnica, mani che promettevano di essere educatissime, e soprattutto un talento cristallino ancora da sgrezzare. Nel 1941 entrò nella DeWitt Clinton High School come un tredicenne dinoccolato, alto sei piedi e otto pollici (all’incirca 2 metri e 1), dalle buone capacità come giocatore di basket e dall’intelligenza impressionante. E era anche estremamente propenso al lavoro. Il suo coach del liceo ricordava che:

Era in palestra ad allenarsi in ogni momento libero. Eravamo costretti a cacciarlo via.

Tenne ottime medie nel basket liceale, portando gioie alla sua scuola nei vari tornei cittadini che si tenevano nell’area di New York, ma soprattutto studiò. Studiò tanto che, nel 1944, dopo soli tre anni, si diplomò con il massimo dei voti. A sedici anni. Inumano.

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Dolph Schayes con la maglia di New York University; credits to: howstuffworks.com via Google

I college lo guardavano come un pietra estremamente rara, una pietra che dovevano assolutamente riuscire a far loro. Ricevette proposte più o meno indecenti da Purdue, dalla St. John’s University, dalla Columbia e soprattutto dalla New York University. Tutte queste università avevano i loro pregi e i loro difetti, ma NYU aveva un’attrattiva insuperabile. La sede era a meno di un tiro di fionda da casa di Dolph. E del resto, a sedici anni, chi aveva voglia di imbarcarsi in lunghi viaggi quando l’università potevi farla così vicino a mamma e a papà? Così Dolph Schayes si iscrisse alla New York University ottenendo una borsa di studio per le attività sportive. All’epoca NYU aveva una delle squadre più competitive in circolazione a livello collegiale. Le sue punte di diamante erano Don Forman e Sid Tannenbaum, che nel giro di pochi anni sarebbero diventati delle stelle tra i professionisti. Quando Dolph entrò in palestra il primo giorno si rese improvvisamente conto di essere il giocatore più giovane, no, più piccolo della squadra. Fortunatamente però le sue spalle erano abbastanza larghe e il suo talento abbastanza chiaro da risparmiargli la maggior parte del sano nonnismo che gli sarebbe stato dedicato in quanto matricola. Anzi, Forman e Tannenbam lo presero sotto la loro ala, cercando anche di aiutarlo a migliorare il suo gioco. Lo incoraggiarono a lavorare più duro a rimbalzo, lo convinsero a tentare il tiro da fuori, aumentando di allenamento in allenamento il suo range di pericolosità. I frutti cominciarono a vedersi fin dal 1945. Schayes e NYU arrivarono fino all’atto conclusivo del torneo NCAA prima di doversi arrendere per 49-45 nella decisiva finale a Oklahoma A&M, ma l’appuntamento con la gloria era solo rimandato, del resto Dolph era solo un freshman. Nel 1948 NYU imboccò una stagione straordinaria. Il record recitava 20-3, Dolph Schayes infilò 356 punti durante la stagione, che gli valsero il record come miglior marcatore di NYU, venne nominato All-American e vinse anche l’Haggerty Trophy, il premio dedicato al miglior giocatore dell’area di New York City. La squadra si presentò al National Invitational Tournament come una delle grandi favorite, e raggiunse agevolmente la finale, dove però, ancora una volta, dovette inchinarsi alla rivale, questa volta St. Louis. La storia era finita. Perché Dolph Schayes aveva concluso il suo percorso universitario, e a vent’anni lasciò NYU con un bachelor of studies in ingegneria aereonautica e un bottino personale sul campo da basket di 815 pts in 80 partite. Mostruoso.

Appena uscito dall’università, Dolph Schayes divenne l’oggetto del desiderio delle franchigie di ben due leghe nazionali, la BAA e la NBL, tanto da divenire la prima scelta assoluta in entrambi i Draft, da una parte dei New York Knickerbockers, dall’altra dei Tri-Cities Blackhawks. Era il momento di scegliere, e visto l’affetto che Dolph sembrava provare per New York sembrava che la scelta fosse scontata. Ma nel frattempo i Tri-Cities non stavano vivendo esattamente un periodo florido. I giocatori non volevano restare in un mercato tanto piccolo, e la squadra era costretta a cederli a realtà più grandi per rientrare economicamente. Non fece eccezione Dolph Schayes, che i Blackhawks cedettero ai Syracuse Nationals. Si arrivò perciò all’offerta degli stipendi. La proposta di New York era buona, ma la squadra di Syracuse era disposta a fare follie. Come per esempio offrire a un ragazzo di appena vent’anni un contratto da 7.500 $ a stagione. Nel 1949. Era come essere lanciati di peso nel deposito di zio Paperone. Dolph fece le valigie con un sorriso a trentatré denti stampato in faccia. E poi non è che Syracuse fosse così lontana dall’amata New York.

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Dolph appena arrivato a Syracuse; credits to: mearsonlineauction.com via Google

Il primo anno NBL di Dolph Schayes dimostrò esattamente perché i Nationals avessero avanzato quell’offerta insensata pur di averlo. Con 12.8 pts a partita (meglio addirittura di quanti avesse fatto al college), Dolph si guadagnò il titolo di Rookie of the Year, strabiliando tutti per le sue capacità nel ruolo di ala grande. La sua mobilità, il suo tiro pulito e chirurgico, che si inarcava in un campanile altissimo, tanto da meritare il nomignolo di Sputnik, la sua capacità di andare a rimbalzo erano qualcosa di mai visto prima nella lega. Una lega morente però. Perché nel 1951, proprio mentre Dolph Shcayes sposava l’amore della sua vita, Naomi Eva Gross, la NBL fallì, e fu costretta ad accettare la fusione con la BAA. Le due leghe unite andarono a fondare la NBA, con i Nationals che volevano da subito imporsi come dinastia regnante del nuovo panorama cestistico nazionale. Sembrò un gioco all’inizio. Schayes segnava a ripetizione,  incantando giornalisti e spettatori. Del resto una vecchia frattura al braccio destro lo aveva aiutato a sviluppare il gioco con la mano debole, rendendolo virtualmente irrefrenabili. Il suo bottino fu di 16.8 pts a partita, roba da leccarsi i baffi con gusto. Nella postseason Syracuse si fece largo senza sforzo fino alle NBA Finals dove si trovò di fronte una squadra che veniva dal Minnesota e che veniva chiamata Lakers. Era l’inizio della storia, anche se nessuno se ne rendeva conto. E a fare la parte dell’agnello sacrificale c’erano proprio i Syracuse Nationals. Il duo MikanPollard maltrattò violentemente i Nationals e Schayes, costringendoli a una ingloriosa sconfitta e a rimandare i loro piani di conquista del titolo alla stagione successiva. Così Dolph si mise ancor più di impegno, e nel 1953/54 fece segnare le cifre astronomiche di 17.1 pts e 12.1 rbd a partita, trascinando di peso la sua squadra di nuovo alla finale. Di fronte c’erano di nuovo Mikan e i suoi. Di nuovo il copione si ripeté, come un film dell’orrore. Ma Dolph Schayes non poteva assolutamente demordere. Diede ancora di più, sputò sangue sul parquet, si allenò fino allo stremo. E si presentò all’inizio della stagione 1954/55 più in forma che mai. Quell’anno c’erano grandi novità in arrivo. La battaglia di Danny Biasone aveva avuto successo, ed era stato introdotto lo shot clock dei 24 secondi. Niente più azioni congelate all’infinito, ma solo gioco, tanto gioco, frenetico e veloce. Dolph ci andò a nozze. Continuò a segnare con una regolarità imbarazzante, a tirare giù rimbalzi con un metodica applicazione. Guidò di nuovo i Nationals alle Finals di fronte ai… Fort Wayne Pistons. Perché Mikan si era rotto una gamba, e i Lakers non avevano retto alla sua assenza. Senza la loro nemesi di fronte i Syracuse andò a prendersi ciò che gli spettava. 92-91 recitava il tabellino alla fine della partita. I Syracuse Nationals erano Campioni NBA.

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Dolph in azione per i Nationals; credits to: philly.com via Google

Ma era l’inizio del crepuscolo. Le cavalcate trionfali erano finite, e nemmeno Schayes poté nulla contro il declino dei Nationals. Collezionare rimbalzi a man bassa non bastava. Segnare come un demonio non bastava. Essere dominante non bastava. Syracuse non respirò più l’aria rarefatta della NBA Finals. Schayes continuava a giocare All-Star Games (furono dodici consecutivi a fine carriera), a far parte del primo o del secondo quintetto All-NBA. Era il miglior tiratore di liberi in circolazione, il miglior rimbalzista che ci fosse (lo aveva dimostrato catturando 16.4 carambole a partita nel 1951), ma nulla era più abbastanza per quella squadra. Nemmeno i 50 pts fatti registrare in una partita contro i Boston Celtics nel 1959 (che rimasero il suo career high), nemmeno le 706 partite giocate, senza mai un’assenza (una striscia durata quasi dieci anni). Dolph Schayes si accorse che tutto quello che riusciva a dare sul parquet non poteva risollevare i destini di Syracuse. Nonostante tutto, nel 1958 giunse secondo nelle votazioni dell’MVP, ed era sempre in testa a qualche voce statistica, fossero i rimbalzi o la percentuale ai tiri liberi. Era ancora temutissimo per la sua capacità di prendersi i suoi tiri da fuori e di penetrare a canestro nel momento stesso in cui avesse visto che il difensore era sul punto di stopparlo. La sua intelligenza cestistica era la sua arma più tagliente e più sfruttata.

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credits to: forward.com via Google

Ma gli anni si fanno sentire anche dalle leggende, e Dolph Schayes non faceva assolutamente eccezione. Considerata anche la frustrazione causata dagli insuccessi della squadra, era forse sorprendente che Schayes fosse riuscito a resistere su quegli standard fino a quel punto. Il 1961 fu un anno più che positivo per lui: divenne il primo giocatore a far registrare più di 15.000 pts in carriera, a cui andavano aggiunti 10.000 e più rimbalzi e 2.000 assist abbondanti. Era ormai nella leggenda. Ma i risultati di Syracuse erano troppo scadenti e la proprietà voleva una scossa. Così nel 1963 la franchigia si trasferì nella più grande Philadelphia, cambiando nome da Nationals a 76ers. Era nata Philly. L’establishment volle un restyling completo anche del coaching staff, e affidò la guida della squadra proprio a Schayes, che divenne allenatore-giocatore dei nuovi 76ers. L’esperienza durò un solo anno, perché nel 1964, dopo 15 anni nella lega, Dolph Schayes decise di ritirarsi. Se ne andava con 18.438 pts (secondo solo a Bob Pettit al momento del ritiro), che diventavano 19.247 considerando anche la stagione NBL, per una media in carriera di 18.2 pts a partita. A queste cifre bisognava aggiungere gli 11.256 rbd e i 3.072 ass. Il tutto in 996 gare giocate. Un pezzo di storia.

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Schayes sulla panchina dei 76ers in un intenso momento al Boston Garden; credits to: mytime.com via Google

Schayes rimase comunque sul pino dei 76ers, per continuare a guidare la squadra, per altri tre anni, vincendo tra l’altro il titolo di Coach of the Year nel 1966, un premio alla sua immensa intelligenza e poliedricità. Dal ’66, e fino al ’70  ricoprì anche l’incarico di supervisore degli arbitri. E proprio quel 1970 fu un anno di fondamentale riconoscimento. Mentre la NBA lo eleggeva nel top team dei giocatori ritirati durante le celebrazioni del proprio venticinquesimo anniversario, Dolph ottenne il posto di capo-allenatore dei Buffalo Braves. Sarebbe stato il primo della storia, e la sua gestione sarebbe durata una stagione, prima che rassegnasse le sue dimissioni dopo una sola partita della seconda stagione. Nel 1972 il più grande e dovuto degli onori, destinato a un pioniere del basket come lui: l’elezione nella Naishmit Memorial Basketball Hall of Fame. Non sarebbe stato l’ultimo. Nel 1996 venne inserito nella lista dei 50 più grandi giocatori della storia NBA, una lista nella quale aveva (e ha ancora) il pieno diritto di essere.

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credits to: alanpaul.net via Google

E ancora, nel marzo di quest’anno i Philadelphia 76ers hanno deciso di ritirare la sua maglia #4. Un onore che però Dolph non ha potuto vedere in prima persona. Perché il 10 dicembre del 2015, a 87 anni, si è spento a causa del cancro nella sua casa di Syracuse.

Una triste notizia per tutti gli appassionati di questo sport, che hanno perso uno dei loro grandi pionieri, un uomo che ha saputo incidere profondamente sul Gioco, e che è stato tanto fedele alla propria maglia da non abbandonarla nemmeno quando non riusciva più a procurargli l’ebbrezza folle della vittoria. Un gentiluomo d’altri tempi, che non a caso aveva nelle vene il sangue della antica gente della Transilvania, patria di ombre e orrori, di conti e castelli in rovina, di paure e di vampiri. Vampiri come Dolph, elegante e signorile sul parquet, il vero conte Dracula della NBA.

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