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Manuale sul Tanking stagione 2016-17 part.1

Tutto quello che dovete sapere su uno dei processi strategici più singolari dello sport americano. Perché in fondo siamo tutti un po’ Sam Hinkie.

Quante volte vi è capitato di essere fuori con gli amici a parlare di sport davanti ad una birra? Quelle serate tranquille dove il branco si riunisce per deliberare sugli aspetti importanti dell’esistenza, tipo “Chi era più forte, Larry Bird o Magic Johnson?”; le ore passano, la conversazione infiamma e lentamente il branco elegge uno di voi ― magari proprio tu lettore― come Oratore principale, colui a cui spetta l’ultima parola e che tutti rispettano perché “Diamine, lui sì che ne sa.”.

E quante volte vi è capitato che mentre siete lì che sciorinate tutto il vostro sapere, atteggiandovi come una star, costruendo monologhi interminabili infarciti di termini che magari neanche comprendete a pieno ma che fanno intenditore come rating difensivo, lock-out o tanking, arriva sempre un vostro amico ― magari proprio tu lettore ― che, causa un mix di scarsa preparazione e/o passione, inizia a chiedervi di spiegargli meglio di cosa state parlando. “Ma cos’è veramente questo benedetto tanking?”

Panico. “Allora? Ma chi è che fa questo tanking quest’anno? E soprattutto perché? Non capisco…” La vostra faccia assume un’espressione vuota: provate ad abbozzare una difesa, ma il branco ha già fiutato l’odore della detronizzazione e capite di essere tornati un comune mortale. Maledizione.

Però i dubbi restano. “Ma quindi ‘sto tanking? Cos’è? Chi lo fa?”

Tranquillo Lettore, questo Manuale è dedicato a te. Che tu sia il Bulletto del giovedì sera che vuole dominare la discussione con i propri amici o una Giovani Reclute che si approccia al Mondo NBA proprio adesso e non vuole restare indietro, poco importa. Il Manuale sul Tanking stagione 2016-17 è una bussola che vi permetterà di navigare all’interno di uno dei concetti più singolari dello sport americano, permettendovi di (ri) conquistare il ruolo di Primo Illuminato tra i vostri amici.

Allora? Siete pronti? Cominciamo!

Il tanking è una pratica molto comune negli sport americani che vede la sconfitta, la distruzione, il toccare il fondo (del fondo) come unico mezzo per tornare al vertice. Il verbo to tank infatti significa perdere deliberatamente, fallire con intenzione. Le squadre decidono di adottare una strategia di tanking, di solito, quando riconoscono di non avere possibilità di poter competere al livello più alto, e preferiscono distruggere totalmente ― tank in inglese sono anche i carri armati, per intendersi ― il progetto attuale per costruirne uno migliore. Ovviamente questa operazione può richiedere degli anni e comporta sacrifici in molti aspetti all’interno di una organizzazione come la perdita delle materie prime ― i giocatori migliori spesso vengono scambiati ― o il dover chiedere ai propri tifosi un atto di fede che richiede molta pazienza.

Provate a pensarla in un’ottica europea, per non dire italiana, e vi troverete davanti subito due problemi evidenti. Il primo è che il Resultadismo ― termine preso a prestito dal calcio ma molto in voga un po’ ovunque ―, ovvero una mentalità pragmatica (per così dire) che si basa esclusivamente sui risultati raggiunti. Questa impedisce allo sport, qualsiasi esso sia e ovunque sia giocato, di staccarsi da analisi semplicistiche, impedendo (spesso) di conseguenza una visione completa nel valutare il lavoro delle società e dei vari Direttori Sportivi/Allenatori/Giocatori. Questo vero e proprio movimento socio-culturale europeo, sempre per non dire italiano, che si estende dalle Tifoserie alla Stampa non è in grado di (o forse non ha sufficiente cultura per) accettare che attraverso la sconfitta si possa costruire un progetto vincente.

Il secondo è quello che riguarda la presenza di un sistema che sia in grado di dare a tutti le stesse (o quasi) possibilità di vittoria. Oltre all’impossibilità materiale ― l’attenzione ad un tetto salariale e la logica delle retrocessioni-promozioni annuale, per intendersi ― ci si accorge subito che anche ideologicamente la differenza è sostanziale.

Per fare un facile esempio una squadra di una piazza medio-piccola, con un mercato ridotto e possibilità finanziarie limitate non avrà mai una possibilità di poter costruire un progetto vincente di lunga durata. Ancora peggio (sempre dal punto di vista ideologico), una squadra di una piazza medio-piccola che ottiene buoni risultati, nonostante le zero possibilità di vittoria, non si sognerebbe mai di smantellare tutto, perdere un’infinità di partite e condannarsi ad anni di anonimato per poter costruire un progetto ritenuto migliore per vincere.

La cultura europea è stata plagiata nei secoli sotto le rigide gerarchie sociali di un ancien régime nel quale una crescita, orizzontale o verticale che sia, è semplicemente impensabile. Nonostante l’ideale cattolico influenzi spesso l’opinione generale, soprattutto in Italia, possiamo affermare che anche nella nostra cultura sportiva gli ultimi rimarranno ultimi.

Nella cultura americana è presente una mobilità sociale molto più alta (forse a causa anche di una mancanza di epica e antica nobiltà), permettendo a chiunque possibilità di crescere ed affermarsi. Il molto celebre “sogno americano” si basa esattamente su questo. E quindi, quando un imprenditore americano decide di investire dei soldi lo fa solo se la sua fetta di possibilità di successo è pari a quella degli altri. Ovviamente non tutte le strade saranno le stesse, alcuni percorsi per arrivare al vertice possono essere più ripidi di altri, ma il risultato finale sarà sempre dato dalla genuinità del proprio lavoro e delle proprie idee.

Per permettere a tutti di margini di crescita è necessaria la presenza di un sistema incorruttibile ― anche se poi vedremo una rara eccezione. Da questo derivano il già citato tetto salariale (Salary Cap) che impedisce, o quantomeno sconsiglia, alle franchigie più ricche di monopolizzare il mercatore dei giocatori. Mercato tra l’altro in cui è impossibile far valere la mera capacità economica perché per poter prendere un giocatore da un’altra squadra ― a meno di scadenze di contratto ― è necessaria una trade che permetta un guadagno anche a chi vende.

Giocatori infine che oltre allo scambio non c’è altro modo di acquisirli se non attraverso un Draft che premia i più deboli dell’ultima/e stagione/i. Ecco dove si inserisce l’importanza del tanking: il perdere assicura un maggior numero di possibilità di ritrovarsi una scelta alta nel prossimo Draft, permettendo a chiunque franchigia di poter mettere le mani sui migliori talenti futuri, mettendo le basi per il nuovo progetto. Ah, ovviamente perdere più partite di chiunque altro non si traduce nella certezza matematica di poter scegliere per primi perché l’ordine di scelta è determinato da una lotteria alla quale partecipano le quattordici squadre (sette per conference) che non hanno raggiunto i playoff nella stagione precedente.

Questo garantisce al sistema di rigenerarsi continuamente, rimanendo flessibile verso tutte le correnti e bloccando coloro che cercano di scavalcarlo o aggirarlo. Ogni squadra deve sottostare a questa politica fluida che alterna cicli vincenti ad altri di crisi. (Ps: quando in NBA si dice “ogni squadra” lo si fa ovviamente tenendo conto dell’esclusione da ogni tipo di parametro dei San Antonio Spurs, che come in tutte le cose fanno sempre categoria a parte; infatti anche in questo sono l’unica squadra ― ad oggi ― ad essere riuscita a corrompere il sistema restando al vertice per quasi vent’anni. Sono loro l’eccezione di cui vi avevo accennato in precedenza.)

Attuare una politica di tanking non garantisce risultati certi ― come è giusto che sia ― ma è una via meritocratica verso la costruzione di squadre vincenti; non importa se un arabo o un magnate russo si innamora di una franchigia (Prokhorov saluta!), perché il suo impero finanziario, da se, non accrescerà le possibilità di costruire qualcosa di importante.

Lo spettacolo messo in campo da una squadra che decide di perdere intenzionalmente non è sempre hollywoodiano, diciamo così, e questo porta ogni anno molte persone a chiedersi se non sarebbe il caso di cambiare, o quanto mano aggiustare questo processo. Jody Arvigan su FiveThirtyEight aveva raccolto oltre 7’000 idee per cambiare questo sistema; qui invece potete farvi affascinare dall’idea proposta da Zach Lowe su Grantland di costruire un sistema rotatorio su base trentennale. Per adesso il sistema non sembra destinato a cambiare, che piaccia o meno. It’s Tanking, Bitch!

Questa che sta per iniziare sarà comunque una stagione storica, e per una volta non stiamo parlando dei nuovi Big Four di Golden State. L’inizio dell’innalzamento del salary cap e un contratto collettivo (CBA) da rivedere ― che non dovrebbe comunque portare ad un nuovo lock-out, esultate con me ― hanno reso e rendono tuttora molte franchigie incerte sul da farsi. Ci troviamo di fronte ad una nuova era della NBA e tutti stanno cercando di pianificare bene oggi per non restare indietro domani.

Questo tradotto vuol dire esseri disposti a fare sacrifici, come appunto demolire e ricostruire. La prossima stagione è già ricca di squadre che per motivi diversi rientreranno all’interno di questa estrema soluzione, ma potrebbe vedere aggiungerne di altre molto prima di quanto si possa pensare. Ne ho selezionate otto, quattro per conference, da dividere in due categorie: le squadre Consapevole Accettazione e quelle Inconsapevole Negazione. La prima riguarda quelle squadre che quasi sicuramente andranno incontro ad una stagione di tanking aggressivo, e sono le quattro che vedremo in questa prima parte. La seconda categoria invece riguarda quelle che ad oggi non sembrano interessante a questa strategia ma potrebbero finirci molto presto, ma queste le vedremo più avanti. Chi sa già di dover tankare (scusate l’anglicismo) nella prossima stagione?

Philadelphia 76ers 

È doveroso iniziare con chi ha fatto del tanking un dogma religioso negli ultimi anni. Anche se Hinkie non c’è più il suo disegno illuminista rimane saldamente ancorato al progetto della franchigia. Quelle poche possibilità di veder Philadelphia iniziare la propria scalata verso una stagione da almeno 30 doppie-vu si sono sciolte come neve al sole nel momento in cui Simmons si è infortunato ― ed i tempi di recupero sono molto incerti. Niente paura e #TrustTheProcess ancora di più. Phila ha davanti un’altra lunga stagione e l’unico scenario immaginabile sembra quello di altri dodici mesi di sofferenza per poi finalmente rilanciarsi, ma i Sixers sono pieni zeppi di scelte future ― che potrebbero aumentare in caso di trade per Noel o Okafor ―, flessibilità salariale e talento. Magari la fine del tunnel è più vicina di quanto si pensi. Soprattutto se Embiid può tornare ad essere considerato un giocatore di basket. Alleluia. Se avete a cuore almeno un po’ la memoria di Hinkie (che al momento sta facendo snowboard da qualche parte) continuate a crederci. D’altronde si sa è sempre un po’ più buio prima dell’alba. Quindi coraggio, e #TrustTheProcess.

Phoenix Suns

I Phoenix Suns stanno costruendo un core di giovani promesse che se azzeccate potrebbero portargli a tornare competitivi, ma che nell’immediato futuro non hanno molte chance di competere per obiettivi importanti. Devon Booker è un diamante pregiato che dovrà dimostrare nella sua stagione da sophomore di essere il franchise player che i Suns stanno cercando da molto; le grandi speranze dell’ultimo draft, Bender e Chriss, hanno bisogno di superare la fase di sviluppo e adattamento e nonostante la presenza di due point-guard come Bledsoe e Knight difficilmente i Suns raggiungeranno le 25 vittorie nella prossima regular season. Phoenix potrebbe scambiare uno di quest’ultimi due ― se non tutti e due ― nella ricerca di qualche preziosissima prima scelta da sommare a quella già presa da Miami in cambio di Dragic. I Suns rischierebbero di trovarsi quattro scelte in due anni in lotteria, che andrebbero ad aggiungersi ai Booker, Chriss, Bender e Len, oramai consapevoli della loro forza.

Brooklyn Nets

Per verità i Nets non avrebbero un grande interesse nel perdere intenzionalmente visto che torneranno ad essere in controllo delle proprie scelte future nel 2019. Ma siccome il nuovo GM Sean Marks sarà costretto a lavorare in un magma ancora a lungo visti i disastri di chi lo ha preceduto i Nets si vedranno per forza di cose obbligati a dover giocare di tanking.

La cosa curiosa è che i Nets (e quando dico Nets sto parlando di Marks) sono stati forza la franchigia che ha operato meglio in tutta l’estate, cosa che vi sembrerà una provocazione ma che può essere argomentata con criterio. Hanno dato solo contratti vantaggiosi alla loro flessibilità salariale futura, ed hanno costretto altre franchigie a strapagare i loro giocatori ― tipo Miami con Tyler Johnson e Portland con Crabbe.  Per di più hanno messo un taglio netto col passato e iniziato a mettere le basi per togliersi dal pantano in cui hanno vissuto negli ultimi anni. Si passa dal tanking ma finalmente un bravo anche ai Nets, ed è già qualcosa.

Los Angeles Lakers

So cosa state pensando, ma D’Angelo-Clarckson-Ingram-Randle don’t mean a thing without KD. Per KD non si intende necessariamente Durant ma un qualsiasi Big in una qualsiasi free agency visto che ad oggi i Lakers sono stati snobbati nell’ordine da Durant, Whiteside, Horford, Bazemore, Parsons, Batum, il Signore Anziano di UP!, il Mago Telma e il varano di Russell Westbrook. L’arrivo di Luke Walton porta freschezza ad un ambiente che ne aveva davvero bisogno e il quartetto di giovani assi promette grandissime cose, ma gli obiettivi dei Lakers nella prossima stagione rimangono tre:

  • Implementare un sistema di gioco
  • Sviluppare il talento dei giovani
  • Proteggere con le unghie e coi denti la loro prima scelta che è protetta solo in top-3

Da qualunque angolo la si voglia vedere i Lakers di oggi non valgono più del dodicesimo posto ad Ovest, e quindi dell’essere una squadra da lotteria. Ma vincere troppe partite porta con se non solo il rischio di vedersi scippare la prima scelta dai Sixers nella prossima stagione, ma di perdere anche la 2019 a favore dei Magic. Insomma è inutile fomentare discorsi da “Eh ma sono i Lakers…”. Ad oggi la parte nobile di Los Angeles non solo non ha l’appeal di altre franchigie ― e l’accoppiata Mozgov/Deng mi sembra lo spieghi bene ― ma non può neanche permettersi l’incoscienza di poter pensare di salire troppo rapidamente. State sereni tifosi dei Lakers, non si può tankare per sempre. O forse sì?

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