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Aussies

Gli Aussies alla conquista della NBA. Per il terzo anno di fila un nativo australiano sul tetto più alto del mondo del basket. E questa volta con un ruolo da protagonista.

Quando agli albori del 1600 il navigatore olandese Willem Janszoon sbarcò sulle coste australiane, le popolazioni aborigene originarie del sud est asiatico si erano insediate in quello che viene definito “nuovissimo continente” già da secoli, impiantando una cultura e uno stile di vita ben diverso da quello tipico dei colonizzatori inglesi che da li a poco avrebbero dominato le terre emerse dell’estremo sud del globo terrestre. Quegli Inglesi che nel giro di pochi decenni avrebbero stravolto la cultura indigena importando il modo di vivere classico della ben lontana Gran Bretagna, spazzando via origini e tradizioni aborigene. Tralasciando la lunga storia che, tra aspetti politici, sociali e culturali, porta fino ai giorni nostri, in questo articolo ci vogliamo soffermare meramente sull’aspetto sportivo di una nazione ai vertici di molte discipline.

www.masterstudio.it

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Essendo colonia della corona britannica, il popolo australiano ha subito una notevole influenza dalle passioni d’oltremanica. Gli Aussies eccellono nel rugby, nel quale sono stati pluricampioni mondiali e nel quale, con gli All Blacks e il Sud Africa, danno vita ad un evento sportivo meraviglioso come il Tre Nazioni; nel cricket, sport di antichissima e consolidata tradizione a quelle latitudini; nel Tennis, basti pensare che uno dei quattro tornei più importanti del circuito ATP sono gli Open di Australia, che si svolgono in Gennaio a Melbourne, prima tappa dei tornei del Grande Slam; nel calcio, nel quale gli Australiani stanno crescendo a livello esponenziale; nel nuoto, come logico che sia per un paese completamente circondato dal mare e, ultimo ma non meno importante, nel Football Australiano, una variante del Football Americano, seguitissimo ed amato dagli sportivi australiani. E il Basket? Nonostante il domino nelle competizioni oceaniche, la nazionale australiana non è mai emersa, tranne qualche piazzamento sporadico, nei grandi eventi sportivi a livello planetario come possono essere le Olimpiadi o il campionato mondiale organizzato dalla FIBA. Nonostante ciò molti giocatori provenienti dall’Australia sono stati e sono ancora oggi, a stipendio delle potentissime franchigie della NBA. Andrew Bogut, attuale centro dei Golden State Warriors è stato addirittura selezionato come prima scelta assoluta nel 2005; altra prima scelta assoluta, destinato a diventare un leader della lega come Kyrie Irving è nativo australiano nonostante abbia deciso di rappresentare i colori statunitensi; il miglior prospetto e probabile altra  prima scelta assoluta del prossimo Draft, a nome Ben Simmons, è cittadino di quella che, nel 1700, veniva chiamata Terra Australis Incognita. Ormai la lega più importante e spettacolare del basket mondiale annovera tra le sue fila una quantità di “foreign” particolarmente elevata, cosa impensabile anche solo qualche decennio fa. Sono innumerevoli le nazioni che contribuiscono ad espandere le rappresentanze straniere nella NBA, fenomeno che denota una volta di più la portata globale di un campionato seguito a tutte le latitudini. Un fatto curioso però sta emergendo nelle tendenze degli ultimi anni. Per il terzo anno di fila, la squadra che si è aggiudicata il titolo NBA ha tra le sue fila un nativo australiano e non solo, sono i nativi australiani ad avere un incidenza particolarmente importante sull’andamento delle Finals. La serie ha preso vita nel 2014 quando i San Antonio Spurs, reduci dalla sconfitta rimediata in modo piuttosto carambolesco nel 2013 (citofonare casa Allen) per opera dei Miami Heat, si sono presi la rivincita contro Lebron & C. grazie ad una serie di finale paurosamente efficace dal punto di vista balistico. 4a1 e poche storie, spazzati via gli Heat campioni uscenti. In quella edizione degli Spurs, oltre Leonard, Duncan e Ginobili, un ruolo importante è stato recitato da Patty Mills, figlio di un’indigena australiana, chiave tattica particolarmente utile per punire dall’arco la difesa di Miami che chiudeva l’area per difendere contro le penetrazioni di Parker, Ginobili e Leonard o contro la capacità di dominare l’area di Tim Duncan. Senza dimenticare, seppur con un ruolo marginale, la presenza di Aaron Baynes tra le fila dei nero argento.

Credit to: www.nba24.it

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L’anno scorso nelle Finals tra Cavs e Warriors abbiamo addirittura assistito ad un derby australiano tra Bogut e Dellavedova. Anche in questo caso la chiave tattica riguarda un Australiano. La serie è girata nel momento in cui, sul 2a1 per la franchigia dell’Ohio, coach Kerr ha deciso di tirar via dal quintetto il suo centro titolare Bogut per inserire quello che sarà poi nominato MVP delle Finals, Andre Iguodala. 4a2 Warriors, titolo agli Splash Brothers e altro australiano in grado di alzare al cielo il Larry O’Brien Trophy, nonostante il migliore dei due in termini di rendimento sia stato lo sconfitto Dellavedova. Quest’anno stessa finale e stesso derby con ruoli diversi. In queste Finals Bogut è riuscito a mantenere lo status di titolare contribuendo ad una difesa che , se sintonizzata sul canale giusto, è sembrata difficilmente valicabile da un attacco basato principalmente sulle individualità come quello dei Cleveland Cavaliers. Ma in Gara 5, un infortunio al ginocchio, lo ha costretto a saltare gli ultimi due episodi della serie finale. Dellavedova invece è relegato alla panchina per la presenza dell’altro nativo australiano, Kyrie Irving obbligato l’anno scorso a dare forfait dopo Gara 1 delle Finals causa frattura della rotula sinistra. E Kyrie ha deciso di recuperare il tempo perduto lo scorso anno. Da Gara 3 in poi ha contribuito in maniera decisiva alla causa della franchigia dell’Ohio, a secco di titoli NBA da quando ha preso vita. Una Gara 5 paurosa con 41 punti, che sommati ai 41 di James, annientano i Warriors e incrinano definitivamente le certezze dei ragazzi della baia. Ma soprattutto una gara 7 memorabile. Ha aspettato che la partita arrivasse a lui; un primo tempo da 9 punti, poco più che una comparsa. Un rientro in campo per gli ultimi due quarti da vero campione, giocate da leader che permettono a Lebron di tirare il fiato per la volata finale e che impongono ai Warriors di non concentrarsi solo sul 23 ma di lottare in difesa su due fronti; quello del Re e quello di Uncle Drew. E il canestro decisivo sul punteggio di 89 pari; dopo un tira e molla fatto di sorpassi reciproci, Kirye spezza la gara con una tripla in faccia al doppio MVP Stephen Curry a 53 secondi dal termine della stagione che regala il titolo e il Paradiso a tutti i tifosi di Cleveland.

Credit to: www.onlyagame.wbur.org

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Anche quest’anno quindi un Aussie sul gradino più alto del podio della NBA, nonostante un neozelandese abbia provato, nelle finali della Western Conference a interrompere questa egemonia giallo verde cercando di dare una gioia agli acerrimi rivali “Tutti Neri”. Gli australiani quindi come talismano portafortuna delle franchigie NBA e per chi vuole ripartire sui fasti di una gloriosa storia come i titolari della prima scelta assoluta, i Sixers, si presenta al Draft un occasione ghiottissima. In cima alla lista dei giocatori uscenti dalla college basket ce n’è uno fenomenale dal punto di vista tecnico e atletico che tanti scout ha fatto innamorare nella sua stagione a LSU. Per gli amanti della cabala, porta sul passaporto il nome di quella nazione che sembra generare tanto successo alle squadre in grado di giocarsi il titolo. Tale Ben Simmons, born in Australia e chissà che a Philadelphia possano riassaporare quantomeno il gusto di rigiocarsi una stagione da protagonisti, dopo anni di cocenti delusioni, come ai tempi del Doctor J o di Allen Iverson.

Checco Rivano

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