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Hall of Famer

Le più grandi squadre a non aver mai vinto l’anello-Indiana Pacers (1994-2000)

Nel secondo appuntamento della nuova rubrica made in NBAReligion, ci occupiamo di un’altra squadra che ha calcato i parquet dei meravigliosi anni’90. Una leggenda a guidarli in campo, per tutto il corso della sua carriera, ed altre due a dare istruzioni dalla panca, per una formazione che ebbe una grande costanza di rendimento, arrivando a disputare, nel periodo preso in questione, 4 Finali di Conference ed una Finale NBA. Anelli? Nisba. Troppo più forti gli eversori, spesso in maglia 33 o anche con la 34 giallo-viola. Ma tanti, troppi ricordi di battaglie infuocate, rivalità accesissime e partite mozzafiato in una cornice di pubblico d’eccezione. Perché tutti gli Stati americani hanno la pallacanestro, ma qui era e resta diverso. Perché gli Indiana Pacers, pur non avendo mai vinto un titolo, hanno partecipato attivamente all’epoca d’oro del basket NBA.

I Protagonisti

Come accennato prima, un solo uomo sulla tolda del vascello di Indianapolis, rimasto al timone per ben 17 anni e ritiratosi da icona della franchigia. E pensare che quando venne selezionato al Draft 1987 davanti all’idolo locale Steve Alford, la scelta di quello smilzo ossuto californiano venne sonoramente fischiata dai tifosi dei Pacers. Gli stessi che nel 2005, in occasione dell’ultima partita in carriera dello smilzo di cui sopra, non riuscirono a trattenere le lacrime. Perché Reggie Miller ha cambiato i destini di una squadra che sembrava destinata ad anni di anonimato, trascinandola di peso nel ristretto novero delle contenders. Nello stesso lasso di tempo si alternarono diversi scudieri, dotati di talento e della giusta dose di funzionalità per le sorti della franchigia. Altro grande esempio di attaccamento alla maglia, l’Olandese Volante Rik Smits fu il centro titolare per una dozzina di anni, chiusi sempre in doppia cifra di media. Oltre ai due pretoriani dallo stesso cognome, Antonio e Dale Davis, altri due protagonisti particolarmente estrosi di quegli anni furono Jalen Rose e Mark Jackson, particolarmente strumentali alla causa dei Pacers.

Allenatori

Due nomi nei sei anni considerati, ma si tratta di veri e propri pezzi da novanta. In uno dei suoi principali capolavori, il coach vagabondo per eccellenza, Larry Brown, cambiò radicalmente la cultura cestistica di Indiana. Prima del suo avvento, i Pacers avevano collezionato solo magre figure sin dal loro sbarco dall’ABA nel 1976, senza mai conoscere l’onore di una serie di Playoffs vinta. Grazie al vate del Play the right Way, i gialloblu non solo riuscirono a sbloccarsi, ma sfiorarono l’accesso ad una clamorosa Finale NBA. Come suo solito, a lungo andare il rapporto tra giocatori, dirigenza e Brown andò sempre più deteriorandosi. Fu così che, nell’estate del 1997, il front office decise di affidare il ruolo di head coach ad un biondo inesperto di panchine, ma che la Lega aveva imparato a conoscere fin troppo bene. Catapultato in questo contesto, il triennio di Larry Bird come capo-allenatore rappresenta forse un unicum anche nella storia NBA.

La Genesi

La nascita dei grandi Pacers è da ascrivere al Draft 1987 e conseguente selezione di Miller. La squadra non era composta da grandi nomi, la tradizione era inesistente così come le aspettative. A ragione, tra l’altro: 38 vittorie quell’anno, solo 28 il successivo, nonostante l’arrivo, sempre dal Draft, di Smits. Ma proprio in quell’annata, con l’avvicendarsi di ben 4 allenatori, le nubi nere iniziarono a schiarirsi. Con una trade a metà stagione arrivò nell’Indiana il teutonico Detlef Schrempf, che divenne in breve una delle colonne portanti della squadra, compiendo, nel 1993, l’impresa di essere il primo europeo a disputare un All Star Game. Con Reggie subito esploso come scorer (24,6 nel 1989-90, massimo in carriera) ed il contributo del solido Chuck Person, terrificante tiratore e realizzatore, la squadra era così diventata una delle mine vaganti ad Est. Allenati da Dick Versace, Indiana raggiunse i Playoffs nel 1990, venendo però rapidamente estromessa in 3 gare dai Pistons targati Bad Boys. L’annata seguente venne caratterizzata dall’arrivo in panchina di Bob Hill a stagione inoltrata e da un memorabile Primo Turno contro i Celtics. Allo spareggio in gara-5 a Boston, in una serrata lotta corpo a corpo, tuffandosi sul parquet Bird sbatte la testa e si procura una commozione cerebrale. E’ costretto ad uscire, col Garden ammutolito che si prepara al peggio, sotto i colpi di Person e Miller. In una scena alla Willis Reed, nel terzo quarto Larry riemerge dagli spogliatoi, rientra in campo ed ispira la vittoria dei suoi, sul fil di lana. La stagione seguente, nonostante l’arrivo dal Draft di Dale Davis, i Pacers vissero un’annata altalenante, subendo uno sweep al Primo Turno e sempre per colpa dei Celtics, seppur ancora per un pelo. Dopo la cessione di Person nella off-season, Miller fu ancor più libero di vedersi recapitare i palloni. In una gara contro Charlotte mise a segno 57 punti, ancora oggi record di franchigia. Nei Playoffs gli avversari dei Pacers furono i New York Knicks. Nessuna delle due squadre poteva saperlo, ma stava per nascere una grandissima rivalità. Indiana venne eliminata in 4 partite, ma i primi segnali di quello che sarebbe successo più avanti si videro in gara-3. Maestro del trash-talking, Reggie riuscì ad entrare nella testa di John Starks. La vulcanica guardia di New York non la prese bene e reagì con una testata verso il numero 31. Erano i prodromi di quel che sarebbe venuto più avanti. Nel frattempo però, ad Indianapolis, era giunta l’ora di cambiare registro.

La nascita di una contender

Il ciclone Larry Brown investì in pieno l’ambiente-Pacers. Oltre all’arrivo di Antonio Davis dopo l’esperienza europea, il front office decise di cedere la stella Schrempf in cambio di un giocatore sicuramente più di secondo piano come Derrick McKey. A dispetto di un balbettante record iniziale di 1-6, la squadra presto cambiò passo, conscia che era finalmente giunto il momento di fare la voce grossa in postseason. La sfida non era certo delle più facili, senza il vantaggio del fattore campo e contro i lanciatissimi Orlando Magic di un giovane Shaquille O’Neal. In gara-1, con Indiana sotto di due punti a due secondi dal termine, ecco l’eroe che non ti aspetti, nonostante il pedigree da veterano di lusso. Con una tripla a fil di sirena, infatti, Byron Scott regalò vittoria ed inerzia ai suoi, che completarono un inatteso sweep, vincendo così la prima serie di Playoffs nella storia della franchigia. I Pacers però non si fermarono qui, appagati. Al turno successivo altra mini-impresa ed Atlanta Hawks, detentori del miglior record ad Est, rispediti a casa in 6 partite. I ragazzi di Larry Brown si trovavano così catapultati alle Eastern Conference Finals’94, al cospetto dei temibili New York Knicks di Pat Riley. La favola di Indiana sembrò però arenarsi, con le due sconfitte nella Grande Mela per iniziare la serie. Tutto finito? Non per i terribili Pacers. Knicks domati ad Indianapolis e serie sul 2-2, con una vitale gara-5 in programma al Madison Square Garden. Nessuno poteva sospettarlo, ma quella partita avrebbe segnato l’inizio della leggenda di Killer Miller nei Playoffs. New York in vantaggio di 12 minuti ad inizio ultimo quarto ed incontro che sembrava segnato per tutti tranne uno: Reggie. Nell’ultimo periodo Miller si scatenò, segnando 25 incredibili punti (su 39 totali), col pubblico che avrebbe voluto prenderlo di peso per arrestarlo. Dopo una delle tante triple, si girò verso l’attonito Spike Lee e si mise le mani attorno al collo, imitando lo “strangolamento” cui stava destinando i Knicks, ora improvvisamente sotto 3-2 nella serie.

Il sogno impronunciabile dei Pacers rimase però tale. Venne frantumato non tanto dall’inopinata sconfitta in gara-6, quanto dalla schiacciata in tap-in di Ewing nella settima partita a rompere la parità, prima dell’errore decisivo di Miller da 3.

Indiana però non si volle scoraggiare, rituffandosi a capofitto nell’annata ’94-95 e desiderosa di vendetta. Arrivato Mark Jackson dai Clippers, la squadra aveva ora un playmaker di alto valore, che fu tra gli artefici della prima stagione nella storia della franchigia da 50 vittorie in regular season. Primo Turno passato in scioltezza contro gli Hawks e nuovo appuntamento contro gli (ormai) odiati Knicks. Gara-1, sempre al Madison, avrebbe segnato un nuovo episodio del capitolo Miller vs la Grande Mela. New York era in vantaggio105-99 a 18 secondi dal termine, ma Reggie con una tripla dimezzò il disavanzo. Sulla conseguente rimessa, i giocatori di casa andarono nel pallone. Miller intercettò la sfera e, con una prontezza di spirito incredibile, ritornò fuori dall’arco e sparò la bomba del pareggio in un ambiente sotto shock. A pochi decimi dal termine il numero 31 realizzò anche i liberi dell’incredibile vittoria che consegnava il vantaggio del fattore campo ai suoi.

Indiana si portò sul 3-1, ma ancora una volta sembrò arrestarsi sul più bello. Tiro della vittoria di Ewing in gara-5 e Knicks che espugnarono Indianapolis nell’episodio successivo, riportando la serie in casa per la decisiva settima sfida. Questa volta però, il copione avrebbe riservato un finale amaro per i padroni di casa. Col punteggio in bilico e gli ospiti avanti di due punti, lo stesso Ewing sbagliò il semplice layup del pareggio. I Pacers avevano finalmente superato quello scoglio contro cui si erano andati inesorabilmente ad infrangere, approdando così alle Eastern Conference Finals’95 contro gli Orlando Magic. Anche questa volta l’inizio fu in salita, con due sconfitte in Florida, ma Miller e compagni vinsero la terza partita promettendosi di pareggiare il conto in gara-4, i cui 15 secondi finali ebbero dell’incredibile. Shaw con una tripla portò avanti i suoi di una lunghezza. Sul possesso successivo Miller, ancora lui, da tre realizzò il +2 Pacers con 5 secondi sul cronometro. Possesso Orlando e Penny Hardaway segna un’impossibile bomba per il +1 Magic ad un secondo dal termine. Brown disegnò lo schema alla perfezione nel timeout seguente. Rik Smits riceve palla in post alto, con una finta fa saltare Rollins ed insacca il jumper della vittoria sulla sirena.

Indiana riuscì ad arrivare sino all’ennesima gara-7, ma venne presto domata da Orlando, che impedì così ai propri avversari di passare il turno. Le Finali NBA dovevano attendere ancora.

Epilogo dell’era Brown e rapida risalita

La grande cavalcata sotto coach Larry Brown terminò in breve. Nella stagione ’95-’96 i Pacers cullavano sogni di gloria, ma Miller si infortunò ad un occhio dovendo saltare le prime 4 partite della serie del Primo Turno contro i soliti Hawks. Tornò in gara-5, in casa, ma la sua presenza non fu sufficiente ad evitare un’inattesa eliminazione. L’anno successivo le cose, addirittura, andarono peggio. Nonostante l’arrivo di Jalen Rose, la squadra iniziò ad accusare una crisi di rigetto nei confronti del proprio allenatore. Le vittorie a fine anno furono solamente 39 e la squadra clamorosamente mancò l’accesso alla postseason. Terminato con un mesto epilogo il rapporto con Brown, la dirigenza decise di affidare il comando delle operazioni ad un eroe dell’Indiana, Larry Bird, che fino a quel momento poteva vantare solo qualche esperienza come assistente una volta terminata una carriera leggendaria sul parquet. Larry accettò l’incarico, dichiarando che avrebbe allenato per 3 anni, non uno di meno o uno di più. I risultati non tardarono ad arrivare. I Pacers erano un gruppo solido, con veterani che sapevano decisamente giocare a pallacanestro, affamati di vittorie dopo un anno di digiuno dai Playoffs ed uno staff tecnico ben preparato, con la presenza di assistenti di qualità come Dick Harter e Rick Carlisle. La regular season fu trionfale con ben 58 vittorie e Larry Legend a fugare ogni dubbio sulle sue capacità da allenatore. In postseason, superato rapidamente l’ostacolo Cleveland, l’ennesimo appuntamento coi New York Knicks. Indiana non voleva perder troppo tempo e, soprattutto, battere gli odiati rivali per l’ennesima volta. In gara-4, guarda caso al Madison, i padroni di casa erano avanti di tre punti, ma ad una manciata di secondi dal termine il solito sospetto, in maglia 31, realizzò la tripla del pareggio, per poi vincerla personalmente all’overtime. I Knicks si arresero in sole 5 partite, ma per i Pacers l’ostacolo alle Eastern Conference Finals 1998 era di tutt’altra pasta: i Chicago Bulls con MJ, Scottie e compagnia bella. Michael e Reggie non si amavano particolarmente, diventando loro malgrado protagonisti di una furibonda rissa nel 1993, col il numero 23 sospeso dalla Lega. La serie fu molto equilibrata, con gli sfidanti che risposero pan per focaccia ai ben più quotati rivali. In gara-4 ad Indianapolis, poi, l’ennesimo Miller-time: Bulls avanti di due, ma rimessa in attacco per i padroni di casa. Reggie si libera (forse fallosamente) della marcatura di Jordan, riceve palla mettendo i piedi a posto in un attimo ed insacca la bomba della vittoria, celebrata con la consueta danza a metà campo col pubblico in delirio.

Le due squadre arrivarono sino alla “bella”, solo la seconda volta che Chicago fu costretta ad una gara-7 nelle sei cavalcate verso il titolo. I Pacers erano in vantaggio allo United Center a pochi minuti dal termine col solito ottimo Miller, ma l’ultima parola spettava, di diritto, ad His Airness. Con gli ultimi guizzi della sua carriera in maglia Bulls, Jordan sfiorò la tripla doppia, ricacciando indietro i rivali e consegnando a Chicago i biglietti aerei per Salt Lake City.

A dispetto del lockout che abbreviò la stagione 1999, Indiana si ripropose di puntare al bersaglio grosso, complice anche l’uscita di scena di MJ. I ragazzi di coach Bird sembravano lanciatissimi, come testimoniato dalla solita ottima regular season e dai due turni di postseason passati in scioltezza e senza subire l’onta di una sconfitta, segnatamente contro Milwaukee e Philadelphia, arrivando così immacolati alle Eastern Conference Finals 1999. Il guaio, per Miller e soci, era che dall’altra parte l’avversario correva come un treno merci nella notte. I New York Knicks targati Jeff Van Gundy, da testa di serie numero 8, sorpresero prima gli Heat e poi gli Hawks, ritrovandosi contro gli antichi rivali. Houston e compagni riuscirono a sbancare Indianapolis in gara-1, prima di perdere seconda partita e, ben più importante, Patrick Ewing per la rottura del tendine d’Achille. Strada in discesa per i Pacers? Nemmeno per idea. In gara-3 al Madison i padroni di casa erano sotto di 3 lunghezze ad una manciata di secondi dal termine. Ricevuta palla oltre l’arco, Larry Johnson scoccò, senza ritmo, un tiro da tre della disperazione. Contestualmente l’arbitro ravvisò un fallo da parte di Antonio Davis. La palla venne seguita con lo sguardo da tutto il palazzetto. Solo rete. Big Mama, dalla lunetta, completò forse il più famoso gioco da 4 punti nella storia dei Playoffs. Indiana smarrì la bussola, perdendo poi la serie in 6 partite e Reggie con un misero 3-18 dal campo nell’elimination game. Sulla squadra sembrava aleggiare una maledizione che le impediva di compiere l’ultimo e decisivo passo.

La Grande Occasione

Il terzo anno dell’era Bird era infine arrivato. Larry non parlava mai a vanvera, sarebbe stata la sua ultima stagione sulla panchina e, di conseguenza, l’ultima occasione per cercare la scalata al titolo. La squadra era ormai maturata dopo tutti quegli anni ai vertici della Eastern Conference, presentandosi completa in ogni reparto. Una stella di prima grandezza col killer instinct nei Playoffs (Miller), un elemento di grande classe anche se non sempre sotto controllo (Rose), pretoriani nell’Indiana ormai da tanto tempo (Jackson, Smits e Dale Davis) ed altri veterani pronto uso come Sam Perkins e Chris Mullin. La regular season fu al solito esaltante: 56 vittorie finali, miglior record ad Est, con, nel mezzo, una striscia di 25 affermazioni consecutive tra le mura amiche della nuovissima Conseco Fieldhouse. I test più probanti, come da tradizione, sarebbero arrivati nella postseason, l’ennesima ormai di quel gruppo. Al Primo Turno i giovani ed agguerriti Milwaukee Bucks di un terribile terzetto composto da Ray Allen, Glenn Robinson e Sam Cassell. La serie sarebbe dovuta essere una formalità per i Pacers, ma i loro baldanzosi avversari non si lasciarono certo intimidire. Le squadre si divisero equamente la posta in gioco, rimandando il tutto alla decisiva gara-5 ad Indianapolis. I ragazzi di Bird non si aspettavano certo una simile resistenza da parte di una compagine sicuramente meno esperta, ma, a dispetto di un Miller da 41 punti, il fantasma del clamoroso upset sembrò materializzarsi quando, ad una trentina di secondi dal termine, Tim Thomas dalla media realizza il +1 per i Bucks. Il panico sembra impossessarsi dei Pacers, che affrettano i tiri e vengono salvati solo dai rimbalzi offensivi. Al terzo possesso consecutivo, dall’angolo, lasciato colpevolmente solo, Travis Best infila la tripla del +2. Il centro di Milwaukee, Ervin Johnson, avrebbe l’occasione per pareggiare dalla lunetta, ma realizza un solo libero; dall’altra però Rose fa 0/2. I Bucks hanno un ultimo tentativo, ma Allen sbaglia da quasi metà campo l’Ave Maria. Indiana è salva. Al turno successivo, contro i Philadelphia 76ers, i Pacers sembrano volersi complicare la vita nuovamente, Andarono avanti 3-0 (Miller e Rose entrambi con 40 nella prima partita), prima di perdere inopinatamente due volte di seguito. In un’insidiosa gara-6 in trasferta, Reggie e soci riuscirono a non perdere la testa, controllando agevolmente la contesa ed approdando alla quinta finale di Conference in 7 anni. Ad attenderli per dare battaglia, la solita nemesi, i New York Knicks. Ancora una volta Indiana sul 2-0 ma rimontata nelle gare esterne nella Grande Mela. Alla Conseco i padroni di casa si aggiudicano la partita, ritornando ad un successo di distanza dalle Finali proprio come nel 1994. Miller aveva ancora nel palato l’amaro sapore di quell’uscita beffarda sulla sirena e decise che non era proprio il caso di gustarla nuovamente. Eppure, dopo un terzo periodo da incubo, Indiana si ritrovò sotto nel punteggio con solo 12 minuti da giocare. Reggie ripensò a tutte le beffe subite negli anni, agli avversari visti festeggiare mentre ai Pacers non restavano che le briciole. Sul parquet ormai amico del Madison, la sua seconda casa, il californiano prese fuoco. Mise a referto 17 punti nell’ultimo parziale, guidando i suoi alla rimonta e, soprattutto, ad un traguardo importantissimo. Per la prima volta nella storia della franchigia, infatti, gli Indiana Pacers avrebbero disputato le NBA Finals.

L’avversario non era certamente dei più semplici. Magari meno esperto e smaliziato in molti uomini a livello di cavalcate in profondità nei Playoffs, ma con un nucleo formato da gente di altissimo calibro. I Los Angeles Lakers di Shaq, Kobe e Coach Phil Jackson erano in cerca di un anello con la stessa fame che motivava i ragazzi di Bird.

Pronti via e subito il martello di O’Neal si abbatte sugli inermi Pacers: 43+19 e giallo-viola che controllano abbastanza agevolmente gara-1. Nella seconda partita un minimo di fortuna sembra arridere agli ospiti: Bryant si infortuna alla caviglia ed è costretto ad uscire. Indiana riesce a stare a contatto, mandando Shaq in lunetta per ben 39 volte, ma nel finale è costretta ad arrendersi. Si va in casa dei Pacers con LA sul 2-0, ma serie ancora tutta da decifrare. A testimonianza del possibile equilibrio, con KB8 in borghese, Indiana ha la meglio in gara-3, accorciando il disavanzo sul 2-1. La quarta partita assumeva così dei contorni importantissimi per entrambe le formazioni, o per pareggiare la serie in un caso o per allungare definitivamente in un altro. Non a caso sarebbe stata la sfida più drammatica ed intensa delle NBA Finals 2000. Bryant optò per giocare, nonostante fosse chiaramente limitato dall’arto offeso. L’incontro fu un continuo testa a testa con l’ovvio epilogo dei supplementari. Improvvisa ed inattesa ecco la svolta: O’Neal commette il sesto fallo e per Indiana il 2-2 sembrava fatto. Nessuno però aveva avvisato il numero 8. Con un paio di incredibili giocate, l’ultima a rimbalzo offensivo dopo errore di Shaw, Kobe realizzò i canestri della vittoria, sancita poi dalla quasi impercettibile stoppata del solito Horry sulla tripla di Reggie. I Pacers si trovarono così sotto per 3-1, ma non ancora decisi a mollare. In gara-5, senza mezzi termini, annientarono i Lakers, infliggendo loro una tremenda disfatta e rimanendo in vita, sotterrandoli con 120 punti segnati e ben 33 finali di vantaggio. Il carrozzone si spostava così nuovamente nella Città degli Angeli per l’epilogo della serie. Indiana, da underdog, era decisa a sputare il sangue sul parquet dello Staples, provando a forzare un’impronosticabile gara-7. A conferma della “garra” trasmessa da Bird ai suoi, Indiana riuscì a costruirsi un discreto vantaggio sin dal secondo quarto ed a difenderlo fino a quarto periodo inoltrato. La classe di veri campioni, però, alla fine prevale quasi sempre, ed anche per le Finals 2000 non si potevano far sconti di sorta. Possesso dopo possesso, Los Angeles riuscì ad erodere il vantaggio avversario, prima di ribaltare l’incontro appoggiandosi sulle possenti spalle di Shaq. Miller ebbe un’importante occasione per risolvere la gara, ma affrettò il tiro dai 9 metri, sbagliandolo. Il finale è presto intuibile: Lakers campioni e Pacers con le pive nel sacco a rimuginare sull’occasione sprecata in gara-4. Non ne avrebbero avute altre.

La Fine

Fedele alla parola data, Larry Legend non restò un secondo di più sulla panca della squadra. Il front office, di cui presto il biondo da French Lick entrò a farne parte, optò per un ringiovanimento, senza però perdere l’occasione di entrare nei Playoffs. Ripetendo l’operazione-Bird, fu nominato capo-allenatore Isiah Thomas, anche lui senza esperienza sul pino. Tutti i grandi senatori, ad eccezione di Reggie, furono quasi immediatamente non riconfermati, puntando sull’estro e ascesa di giovani come Jermaine O’Neal, acquisito da Portland proprio dopo la Finale persa, Al Harrington, Jamaal Tinsley e Ron Artest. Indiana effettivamente centrò sotto Thomas la postseason per 3 anni di fila, non riuscendo però mai a superare lo scoglio del Primo Turno. Per questo motivo, nell’estate del 2003, l’incarico di allenare la squadra venne affidato all’ex-assistente dell’epopea-Bird, quel Rick Carlisle che aveva lasciato un buon ricordo in seno all’organizzazione. I Pacers raggiunsero le Eastern Conference Finals 2004, venendo però estromessi da Detroit. Sarebbe stato il canto del cigno per la franchigia e per il suo giocatore più rappresentativo. L’anno dopo sarebbe arrivata la rissa al Palace of Auburn Hills e lo smembramento di una squadra che sembrava in grado di ripetere le gesta della decade precedente. Proprio contro gli ormai odiati Pistons, il 19 Maggio 2005, Miller giocò l’ultima partita della sua carriera con la maglia di Indiana, gara-6 della Semifinale della Eastern Conference. Le persone presenti faticarono a trattenere le lacrime verso la propria bandiera, che tanto aveva fatto per la franchigia, senza riuscire a conquistare l’agognato anello. Con il suo ritiro i Pacers si avviarono ad un lustro di oblio, solo recentemente riscattato da Paul George e compagni, che hanno fatto rivivere gli anni delle tante Finali di Conference dell’era precedente. Anche se sarà difficile riuscire a far dimenticare ai tifosi i tanti ricordi e le tante emozioni di quando vedevano quella maglia numero 31 al tiro, col cronometro ormai prossimo allo zero ed i piedi fuori dall’arco…

Alessandro Scuto

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