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The Others – Dražen Petrović o “the Biggest, the Strongest, the Greatest”

Nell’anniversario della scomparsa, rendiamo omaggio a Drazen Petrovic

Scrivendo di sport, soprattutto dei personaggi che hanno reso grande uno sport, può spesso capitare di trovarsi di fronte a personalità straordinarie, grandissime e meravigliose. Di solito è la parte più bella ed emozionante di questo lavoro. Ma in questo caso c’è qualcosa di diverso. Oggi nel cuore non c’è solo emozione, ma anche tristezza e compianto. Perché quella di oggi non è una storia, ma un requiem per una vittima di un Fato avverso e dannatamente ingiusto. Un Fato che ha deciso di portarci via, molto prima che fosse il suo tempo, uno dei più grandi interpreti mai nati dello sport con la palla a spicchi. Un Profeta, un artista, o più semplicemente un genio. Questo è stato Dražen Petrović, il “Mozart del Canestro”. Perché proprio Mozart, forse il più grande musicista mai vissuto, è l’unico termine di paragone degno, l’unico vero alter ego possibile per questo poeta misconosciuto, e troppo spesso dimenticato, della pallacanestro.

Dražen Petrović era nato il 22 ottobre 1964 a Šibenik, in quella che era ancora la Yugoslavia unita. Era il secondo figlio di JovanJolePetrović, un poliziotto di etnia serba, originario del villaggio di Zagora, in Bosnia-Erzegovina, e di sua moglie Biserka, bibliotecaria, nata a  Bilica, non lontano da Šibenik, figlia di una famiglia croata estremamente tradizionalista e conservatrice. Le differenze, etniche e culturali, tra i due sarebbero sembrate insormontabili solo pochi anni dopo, ma quella era la Yugoslavia delle grandi possibilità, la Yugoslavia propositiva e vitale che voleva recitare un ruolo di primo piano sul panorama politico internazionale. Quel ruolo, però, passava da una continua sfida, a livello planetario, in tutti i campi, da quello militare e scientifico fino a quello sportivo, con le due grandi superpotenze. Ma se era vero che non c’erano le risorse necessarie per competere con l’URSS e gli USA su tutti gli altri piani, nello sport la Yugoslavia sentiva di poter dire qualcosa. I ragazzi erano incentivati fin dalla tenera età a intraprendere un percorso sportivo che li portasse a livelli abbastanza alti da dare lustro al proprio paese. Dražen e suo fratello maggiore, Aleksandar, non fecero eccezione. Fu proprio Aleksandar il primo a scegliere. Rimase incantato da quello strano sport americano, giocato a tutta velocità, con la palla e i due canestri, uno sport che anche in Yugoslavia aveva il suo seguito più che discreto. Fu così che l’incantesimo del basket colpì per la prima volta Dražen Petrović. Guardando suo fratello giocare, capì quale fosse il cammino che lo attendeva. Capì di essere stato stregato. Capì di aver incontrato il suo destino. A casa aiutava suo fratello ad allenarsi, poi continuava da solo, sudando per ore con la palla a spicchi in mano. All’età di tredici anni, finalmente, ebbe la sua occasione. Esordì nelle giovanili del Šibenka, la squadra locale. Apparve subito chiaro a tutti che non era un giocatore qualsiasi, che non era nemmeno un buon giocatore. Apparve subito chiaro a tutti che ci si trovava al cospetto di un fenomeno.

Gli bastarono due anni soltanto per aprirsi la strada verso la prima squadra. Nel 1979, appena quindicenne, proprio quando suo fratello Aleksandar (a.k.a. Aza, come venne poi chiamato) partiva, in direzione Cibona Zagabria, fece il suo esordio nel Šibenka appena asceso in prima divisione. Divenne immediatamente la star assoluta di quel piccolo team, trascinandolo verso insperati successi. Nel 1982 raggiunse la finale di coppa Korać, perdendola poi contro il Limoges per 90-84. Senza darsi per vinto, nel 1983 prese ancora la squadra per mano, portandola un’altra volta in finale di coppa Korać. L’avversario era ancora lo stesso, quel Limoges che si sarebbe rivelato essere il vero incubo del Šibenka. Arrivò un’altra sconfitta, per 94-86, ma Dražen non ebbe neppure il tempo di pensarci. Già una nuova sfida lo attendeva all’orizzonte. Pochi giorni dopo quella sconfitta, infatti, il Šibenka affrontò la Finale di YUBA Liga contro il ben più titolato Bosna Sarajevo. La serie fu tirata e difficile e fu Dražen stesso a risolverla, infilando con invidiabile sangue freddo i due liberi della vittoria. I due liberi della storia. Era il primo titolo del Šibenka, ed era dovuto solo a Dražen Petrović. Ma qualcosa andò comunque storto. Il giorno successivo infatti, la federazione yugoslava di basket revocò il titolo a causa di non meglio specificate irregolarità arbitrali. Si decise di rigiocare la partita, ma i dirigenti del Šibenka non potevano accettarlo. Boicottarono apertamente il rematch, imponendo alla squadra di non presentarsi in campo, e consegnando, volutamente, il titolo al Bosna. Ma la strada verso la grandezza era ormai aperta, e a Dražen rimanse solo un piccolo stop da fare prima di percorrerla.

Dopo un anno di ferma militare, infatti, le pressioni di coach Mirko Novosel, lo convinsero a trasferirsi nella capitale croata, per andare ad ingrossare le fila del Cibona Zagabria, campione nazionale in carica, e andare a formare il miglior back-court d’Europa in compagnia di suo fratello Aza. Era il 1984, e Dražen aveva vent’anni. Il suo primo anno al Cibona fu folgorante. Sul parquet faceva cose straordinarie, arrivando persino a permettersi di vincere le partite quasi completamente da solo. Il Cibona scalò velocemente tutte le classifiche, vincendo comodamente tanto la YUBA Liga quanto la coppa nazionale. Ma non era per vincere quelle competizioni che Dražen era arrivato nella capitale. La città di Zagabria era infatti funestata da un’ossessione. Un’ossessione chiamata “coppa europea”. Perché su ben dieci apparizioni nelle competizioni continentali, il Cibona Zagabria non era mai riuscito a prevalere. Dražen era deciso a fare in modo che quella statistica cambiasse. Ad Atene, nella finale di Eurolega del 1984-85 di fronte a lui c’era il Real Madrid, ma nulla sembrava poterlo fermare. Infilò 36 pts in quella sfida, e il Cibona vinse 87-78. Il tetto d’Europa non era più una chimera per il Cibona, e Dražen aveva dimostrato di essere uno dei giocatori di basket più decisivi del Vecchio Continente.

Ma la sua ascesa verticale era soltanto cominciata. L’anno successivo continuò sull’onda del successo, e portò con sé un’altra Eurolega, conquistata contro lo Žalgiris Kaunas di Arvydas Sabonis, e un altro titolo nazionale, vinto in faccia all’odiato Bosna, mettendo a referto la bellezza di 46 pts. Roba d’ordinaria amministrazione per chi, il 5 ottobre del 1985, nella partita contro lo Smelt Olimpija Ljubljana, era riuscito a stabilire il suo career high per punti alla fantasmagorica cifra di 112. Ripetiamo, per chi non ci credesse: 112 pts, in una partita sola, segnando con un impressionante 40/60 dal campo, 10/20 da tre e 22/22 dai liberi. La prestazione accese su di lui qualche miliardo di luci, tante da farlo diventare visibile anche sull’altra sponda dell’Atlantico.  Nel 1986 le franchigie NBA cominciarono a pensarci seriamente, ma nessuno sembrava avere il coraggio di draftarlo sul serio. Passò il primo giro, passò il secondo. Al terzo giro i Portland Trail-Blazers avevano la scelta #60. Evidentemente il rischio era il mestiere del GM John Spoelstra, che decise di chiamare proprio il nome di Dražen . Ma i tempi non erano del tutto maturi per lui, e la franchigia dell’Oregon decise di lasciarlo ancora in Europa ad affinare il suo gioco.

Dražen, nel frattempo, non aveva la minima intenzione di fermarsi. Nella stagione 1986-87 si portò a casa un nuovo titolo con il Cibona, e vinse un’altra coppa europea, la European Cup Winners Cup contro la Scavolini Pesaro, inanellando altre prestazioni da cardiopalma. Tipo quella della sera del 22 gennaio 1986, quando segnò 9 triple, di cui 7 consecutive, nella partita contro un’altra antica bestia nera, il Limoges, abbattuto poi con una doppia-doppia da 51 pts e 10 ass, o ancora quella della sfida contro la Simac Milano, campione italiana in carica e destinata alla vittoria dell’Eurolega, contro la quale si esibì in 45 pts e 25 ass. Il 21 ottobre del 1987 segnò il suo career high nelle coppe europee frantumando, praticamente da solo, il finlandese Katkan, con 62 pts. Ormai aveva raggiunto un livello di prestazioni esilarante. Il campionato yugoslavo, ormai regno indiscusso del Cibona, non riusciva più a dargli alcuno stimolo, le sue straordinarie capacità di realizzatore non potevano essere imbrigliate da quelle difese. Fu lui stesso a dichiarare di aver bisogno di un nuovo orizzonte, di nuove e più difficili sfide. L’NBA sembrava la destinazione più logica, ma Petrović decise di aspettare ancora un po’. Nell’estate del 1988 ricevette un’offerta assolutamente folle dal Real Madrid: 4 milioni di dollari a stagione per raggiungere la capitale spagnola e vestire la camiseta blanca. Una cifra immensa, soprattutto per gli standard dell’epoca. Ma Dražen Petrović era, senza tema di smentita, il miglior giocatore d’Europa, e valeva completamente l’investimento. Firmò quasi senza pensarci, lasciando la YUBA Liga orfana di un giocatore da 37.7 pts di media in quattro anni (33.8 pts era invece la media nelle coppe europee). Ma non tutto era così semplice nell’epoca dei Blocchi. Infatti in Yugoslavia vigeva una legge che impediva a un atleta professionista di andare a giocare all’estero prima di aver compiuto 28 anni. Dražen ne aveva solo 23, ma i vantaggi economici erano incalcolabili e la firma sul contratto era già stata posta. Avvenne tutto mentre Dražen era alle Olimpiadi di Seul con la nazionale yugoslava (dove vinse l’argento). José Antonio Arízaga, l’agente che si occupò del trasferimento, ricorda:

Parlai a Mirko Novosel, il coach di Dražen al Cibona, e lui mi disse due cose. Uno: che ogni problema in Yugoslavia poteva essere risolto con la giusta quantità di denaro, e due: se Dražen se ne fosse andato, ogni altro giocatore sotto i 28 anni sarebbe stato furioso e sarebbe stato il caos. Allora, potete immaginare tutti i personaggi che dovetti corrompere e tutti i posti dove dovetti pagare per eludere questa legge”.

Alla fine dell’estate, nonostante tutte le problematiche, il trasferimento era stato completato, e Dražen Petrović si unì al roster del Real Madrid. Nemmeno il campionato spagnolo riuscì a raffreddarlo, nemmeno quel cambiamento lo fermò. Continuò a segnare a ripetizione, come una macchina, divenendo subito il giocatore cardine della squadra. Nel finale di stagione, però, non riuscì a portare i Blancos al successo contro gli storici rivali del Barcelona, che vinsero la Liga ACB in cinque partite. Nonostante ciò Dražen riuscì a portarsi a casa diversi record in quelle Finali, record che ancora al giorno d’oggi rimangono lì, imperturbati. Come quello di maggior numero di punti in una singola partita di una serie finale (42 in gara-4), o quello di maggior numero di triple (8 in gara-2). Del resto, sarebbe stato difficile non stabilirli segnando 207 punti complessivi in 5 gare (41.1 pts di media). Ma il successo era nel DNA di Dražen Petrović. Non sembrava esistere per lui l’idea di chiudere un anno senza portarsi a casa qualche trofeo. E così fu anche in quel 1988-89. Per questo guidò il Real alla vittoria della Copa del Rey, sempre contro il Barcelona, e, soprattutto alla finale di European Cup Winners Cup, dove si trovò di fronte la Snaidero Caserta delle stelle, con Ferdinando Gentile, Vincenzo Esposito e Oscar Schmidt. La partita fu assolutamente all’altezza delle aspettative. I giocatori in campo regalarono solo e soltanto spettacolo per 40 minuti. Caserta chiuse con 114 punti segnati. Una prestazione offensiva impressionante. Ma dall’altra parte il Real Madrid ne segnò 117. Dražen da solo ne mise insieme 62. Si trattava di dominio puro.

In quell’estate Dražen Petrović raggiunse la consapevolezza che le sfide che cercava non avrebbe potuto trovarle in Europa. Tornò in patria, a giugno, e si riunì ai suoi compagni di nazionale, per affrontare gli Europei. La competizione era particolarmente sentita, perché si sarebbe giocata in casa, e perché la Yugoslavia si presentava con una squadra assolutamente stellare, nella quale a Dražen si affiancavano campioni del calibro di Vlade Divac (tra l’altro suo compagno di stanza e amico molto stretto) e Dino Rađa. Fu una cavalcata trionfale. Nessuno riuscì a resistere ai padroni di casa, che asfaltarono sistematicamente tutti i loro avversari, fino a vincere l’oro, cancellando la Grecia per 98-77. Se Dražen aveva avuto qualche dubbio sul fatto di partire alla volta della NBA, quell’Europeo l’aveva cancellato. I Portland Trail-Blazers annunciarono l’accordo e, tre anni dopo il Draft con il quale lo avevano scelto, ingaggiarono Dražen Petrović.

Europe could not offer me what I wanted. […] what else could I have won in Europe? To win another European championship? “So what?”, people would say […] I know that I can play here… only if there is going to be enough playing time

L’Europa non poteva offrirmi ciò che volevo. […] Cos’altro avrei potuto vincere in Europa? Un’altra Eurolega? “E allora?” avrebbe detto la gente […] So che posso giocare qui… se solo avrò abbastanza minuti”.

Queste erano le dichiarazioni di Dražen Petrović a Sports Illustrated appena giunto in Oregon. Pronto ed eccitato per la sua nuova avventura in NBA, Dražen sapeva già che si sarebbe dovuto scontrare con la diffidenza tipicamente americana nei confronti dei giocatori europei. Ma nemmeno lui avrebbe potuto prevedere fino a che punto quella diffidenza si sarebbe spinta a Portland. Pur avendo avuto modo di esaminare attentamente il suo gioco negli anni precedenti, l’establishment dei Blazers continuava a considerarlo troppo poco muscolare e troppo lento, sia offensivamente che, soprattutto, difensivamente. L’avevano acquistato sostanzialmente come specialista da tre punti, e come ultimo uomo di una rotazione delle guardie che comprendeva Clyde Drexler, Terry Porter e il veterano Danny Young. Inoltre il suo stile di gioco, a volte egoista, basato sul suo formidabile tiro da fuori e suoi suoi 1vs1, innervosiva i suoi compagni di squadra, stelle consumate che volevano la palla in mano a ogni azione. Coach Rick Adelman non aveva mai condiviso la scelta di ingaggiare la star europea, ed era evidente che non gli piacesse il suo gioco. Tutti questi fattori si tradussero in una rookie season fallimentare per Dražen Petrović: 7.6 pts, 1.5 ass e 1.4 rbd in 12.6 min di media. Decisamente troppo poco per un giocatore abituato a dominare e vincere. In realtà sembrava che l’unico motivo per il quale Portland continuava a trattenere Petrović fosse che la sua presenza nel roster spingeva le altre guardie a dare il massimo, sempre. Porter arrivò addirittura a giocare da infortunato per non rischiare di perdere il suo posto nello starting five a favore del ragazzino europeo. Fu lo stesso Dražen a raccontarlo:

Porter could barely stands on his legs. He didn’t want Adelman to give me my well deserved chance”.

Porter poteva a malapena reggersi in piedi. Non voleva che Adelman mi desse la mia meritata occasione”.

Il fatto era che Drexler e Porter vedevano quanto Dražen si allenasse duramente. Drexler in particolare ricorda:

He worked very, very hard. Each and every day in practice he would be the first guy to come and the last guy to leave the gym”.

Lavorava davvero, davvero duro. Ogni singolo giorno in allenamento era il primo a entrare in palestra e l’ultimo ad andarsene”.

Ancora amareggiato dall’andamento della sua stagione, Dražen raggiunse i suoi connazionali e amici in Argentina dove si sarebbero giocati i Mondiali. C’erano gli Stati Uniti, certo, ma la batosta del 1988 non sembrava essere bastata a far capire loro quanto forti stessero diventando i loro avversari. A Buenos Aires, in semifinale, Dražen si prese la sua rivincita su tutto il sistema cestistico statunitense, permettendosi di strapazzare la nazionale a stelle e strisce e di sbatterla fuori dalla competizione con una vittoria 99-91. Fu solo un passo in direzione dell’oro, conquistato poi contro l’altra superpotenza, l’URSS di Sabonis e Marčiulionis.

I festeggiamenti per quel titolo, l’ultimo della Yugoslavia, furono però velati dai contrasti e dagli aliti di guerra che, in patria, cominciavano a sgretolare quell’unione politica. E con l’unione politica stava crollando anche quella umana tra i componenti della nazionale. Quando un tifoso si sporse a porgere una bandiera croata a Dražen, Vlade Divac a la prese e la gettò via. Il gesto voleva essere distensivo. Voleva lasciar intendere che quel titolo era stato vinto da tutte le nazioni e le etnie che avevano composto la Yugoslavia, che era stato vinto insieme. Tuttavia quella reazione quasi rabbiosa non passò inosservata e non mancò di essere mal interpretata, soprattutto da Dražen. Non a caso fu al principio dell’allontanamento dei due campioni. Un allontanamento che il centro ex Lakers e Kings non avrebbe mai smesso di rimpiangere.

Forte di quel titolo iridato, Dražen tornò in Oregon, sicuro di essere in grado di cambiare lo stato delle cose, di essere in grado di convincere Rick Adelman a dargli lo spazio che gli serviva. Ma durante l’offseason i Blazers ingaggiarono Danny Ainge, già stella dei Boston Celtics targati Bird. Dražen capì che non ci sarebbe stato spazio per lui quell’anno:

I don’t know, I don’t know. I cannot alter Adelman’s opinion about me. How do I feel? Great! I am sitting on the bench, nobody asks me nothing. I score a few points on the end of the game… In fact, if I may say, I am the highest paid player in the NBA. I am making millions of dollars for 5 minutes per game… 5 minutes per game if Adelman is in the mood and if the score is right”.

Non lo so, non lo so. Non posso cambiare il giudizio di Adelman su di me. Come mi sento? Bene! Sto seduto in panchina, nessuno mi chiede niente. Segno qualche punto nei finali di partita… Infatti, se posso dirlo, sono il giocatore più pagato dell’NBA. Faccio milioni di dollari per 5 minuti a partita… 5 minuti a partita se Adelman è dell’umore e c’è il giusto punteggio”.

Il suo minutaggio e le sue medie crollarono drasticamente. 7.4 min a partita, per un apporto di 4.4 pts, 1.1 ass e 1 rbd. Fino a gennaio giocò soltanto 18 partite su 38. Era il momento più nero della sua carriera.

I have nothing to say to Adelman and vice versa. Eighteen months have passed by, too long. I have to leave to prove how much I am worth. Never in my life did I sit on the bench and I don’t intent to do that in Portland”.

Non ho nulla da dire a Adelman e viceversa. Sono passati diciotto mesi, troppo tempo. Devo andarmene per provare quanto valgo. Mai in vita mia me ne sono stato seduto in panchina e non intendo farlo a Portland”.

Poi finalmente, il 23 gennaio 1991, i Blazers lo inserirono in una trade a tre squadre e lo spedirono ai New Jersey Nets, ricevendone in cambio una scelta al Draft del 1991. Ci fu soddisfazione da entrambe le parti. Dražen partiva per dimostrare di meritarsi la NBA, Portland cedeva un giocatore a suo modo scomodo in cui nessuno aveva mai del tutto creduto. Nessuno se non un uomo. All’indomani della trade, infatti, Clyde Drexler commentò così:

I am positive that Dražen will build a great NBA career in New Jersey… players like Dražen always do. He was not lucky here, but with the Nets will be different. He will show that he can playin this league, and probably make an All-Star in no time”.

Sono sicuro che Dražen si costruirà una grande carriera NBA in New Jersey… i giocatori come lui lo fanno sempre. Non è stato fortunato qui, ma con i Nets sarà diverso. Dimostrerà che può giocare in questa lega, e probabilmente sarà presto un All-Star”.

With the Nets will be different. Le profetiche parole di Clyde Drexler accompagnarono l’ex compagno in New Jersey. La nuova avventura di Dražen gli era perfettamente congeniale. Una franchigia giovane, poca pressione addosso e tanta fiducia nei suoi confronti. I Nets non raggiungevano i play-off sin dal 1986, ma schieravano la prima scelta al Draft del 1990, Derrick Coleman. Dražen si vide alzare il minutaggio, fino a 20.5 min a partita. Con più tempo e più possessi a disposizione riuscì finalmente a dimostrare qualche sprazzo della sua classe, arrivando a siglare 12.6 pts a partita, con 2.1 rbd e 1.5 ass. La stagione 1991-92 fu l’anno della svolta definitiva. Con l’arrivo di Kenny Anderson e l’inserimento di Dražen nel quintetto, i Nets diventarono una squadra da play-off, migliorando il loro record di ben 14 vittorie. Dražen Petrović era il leader assoluto di una squadra rinata. Giocò 36.9 min a partita, per 82 partite, segnando 20.6 pts, 3.1 ass e 3.1 rbd. Dominava come in Europa, più che in Europa. Una sera Vernon Maxwell, tiratore e specialista difensivo degli Houston Rockets, dichiarò, durante l’intervista prepartita:

Has yet to be born a white European who can beat my ass”.

Deve ancora nascere un europeo bianco in grado di farmi il culo”.

Dražen non rispose, ma se lo segnò. Giocò 41 minuti, stampando 44 punti in faccia a “Mad Max”. Non lo guardò nemmeno uscendo dal campo.

Ai play-off il cammino dei Nets si interruppe fin troppo presto, ma adesso Dražen aveva ben altre preoccupazioni. Alla fine della stagione volò immediatamente in Croazia, per accertarsi della salute della sua famiglia, minacciata dalla guerra civile. E poi c’erano le Olimpiadi. Le prime con la maglia croata addosso. A Barcellona Dražen si presentò deciso, con la cattiveria agonistica di sempre. Ma gli Stati Uniti avevano imparato la lezione del 1990, e in quelle Olimpiadi del 1992 portano la squadra più forte mai assemblata nella storia dello sport professionistico. Il Dream Team. Nessuno fu capace di resistere. La Croazia, guidata da Dražen, si fece largo da una parte, gli USA dall’altra. La Finale sembrava quasi scontata. E solo qui Petrović fu costretto ad arrendersi. Si inchinò allo strapotere di Jordan-Bird-Magic & co. ma solo dopo aver combattuto con tutte le sue forze.

Tornò negli Stati Uniti all’inizio della stagione 1992-93 per consacrarsi definitivamente come un campione degno dell’All Star. Con una media di 22.3 pts a partita, ottenuta con percentuali irreali (52% dal campo, 45% da tre), Dražen continuò a trascinare i Nets, portandoli di nuovo ai play-off (dove furono eliminati al primo turno dai Cleveland Cavaliers). Alla fine della stagione i media lo inserirono nell’All NBA Third Team (primo europeo e secondo non americano, dopo Hakeem Olajuwon, a riuscire nell’impresa), ma non riuscì a giocare l’All Star Game (fu l’unico tra i primi tredici marcatori della lega a non essere inserito nella lista). La sua ascesa era quasi completa. Gli mancava soltanto il titolo NBA. E l’unico modo di ottenerlo era quello di andare a giocare in una vera e propria contender. Il suo contratto era in scadenza, e i Nets non potevano garantirgli il raggiungimento di quel tanto agognato obiettivo. Decise che se ne sarebbe andato dal New Jersey.  Si vociferò anche che avesse già raggiunto un accordo per tornare a giocare in Europa, nel Panathinaikos. Ma avrebbe sciolto ogni riserva soltanto dopo aver giocato nel torneo di qualificazione a Eurobasket 1993. Raggiunse la sua nazionale in Polonia, dove sconfissero agevolmente i padroni di casa.

Poi Dražen decise di non prendere l’aereo per Zagabria come tutti i suoi compagni, ma salì sulla sua Volkswagen Golf con la sua fidanzata, Klara Szalantzy, e si mise in viaggio. Sarebbe tornato passando per la Germania. Era il 7 giugno del 1993. Klara guidava tranquilla sulla Autobahn 9, Dražen sonnecchiava sul sedile del passeggero, senza cintura. Intorno alle cinque del pomeriggio giunsero nei pressi di Denkendorf, una località bavarese non lontana da Ingolstadt. Intanto sull’altra carreggiata un camionista sterzò bruscamente per evitare un tamponamento, finendo per perdere il controllo del mezzo. Attraversò la barriera spartitraffico e centrò in pieno la Golf. Dražen morì sul colpo. Avrebbe compiuto ventinove anni soltanto un qualche mese dopo.

Il lutto e il cordoglio invasero la Croazia (dove divenne da subito una sorta di eroe nazionale) e tutto il mondo del basket, i Nets ritirarono la sua maglia #3. Mozart moriva di nuovo. Di nuovo il mondo veniva privato di uno dei suoi più grandi artisti. Tutti gli onori, la statua che lo raffigura, l’elezione nella Basketball Hall of Fame (avvenuta nel 2002), persino il documentario Once Brothers (2010), che testimonia tutto il rimpianto di Vlade Divac per aver perso qualcuno che, a tutti gli effetti, per lui era stato più che un amico, impallidiscono di fronte alla grandezza di ciò che abbiamo perso.

Dražen Petrović se ne è andato, solo per assurgere all’immortalità, come facevano gli antichi eroi greci. La sua memoria sarà tramandata, le sue gesta sul parquet sopravvivranno, esisterà sempre qualcuno che ne racconterà la storia. I grandi non vengono mai dimenticati. Perché se c’era un genio a cui Dražen Petrović fosse degno d’essere paragonato, quel genio è soltanto Wolfgang Amadeus Mozart, e se c’è una cosa che tutti sappiamo, tanto di Mozart, quanto di Petrović, è che sono stati i più grandi, i più forti. I migliori.

[Articolo pubblicato per la prima volta il 19 gennaio 2015]

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