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Army of Knight

Robert Montgomery Knight è, senza ombra di dubbio, uno dei più grandi allenatori di pallacanestro che abbia mai graziato questo pianeta: nonostante ciò, ad anni dal suo ritiro e con uno dei palmarès più ricchi nella storia del basket collegiale, gran parte dell’America non è ancora pronta ad amarlo e non lo sarà mai. Questo perchè Bob Knight è l’America, la personificazione delle sue virtù e dei suoi storici vizi.

Nato settantaquattro anni fa in data odierna in quel di Massillon, Ohio, Robert Knight è semplicemente una figura unica e irripetibile nel basket odierno, tanto da risultare impossibile da comparare a qualsiasi altro allenatore nella storia del basket collegiale e non solo: irascibile, duro, metodico fino alla maniacalità, devoto alla perfezione della vittoria, Knight si può accostare ad una sola figura del XX secolo, muovendoci però non nell’ambito cestistico, bensì in quello militare: l’unico uomo con cui possiamo fare un parallelismo è infatti il generale George Smith Patton, passato alla storia per il suo ruolo sul fronte occidentale durante la seconda guerra mondiale.

Nell’eccellente film “Patton, generale d’acciao” il protagonista, interpretato da un enorme e storicamente sottovalutatissimo George C. Scott, tra i più grandi attori di sempre, apre la pellicola con un discorso di 6 minuti in cui vi è molta della personalità di Patton e, di conseguenza, Bob Knight:

La repulsione nei confronti della sconfitta e dell’individualismo, l’amore per la battaglia e la vittoria, il disprezzo per gran parte dei giornalisti (tutti?), il carattere di ferro e il linguaggio espressionista sono tutti caratteri distintivi di questi due individui che incarnano appieno l’essenza dell’America. Cresciuti entrambi ad Army, Patton come militare e Knight come allenatore, sono due personalità che rappresentano in maniera perfetta il concetto di “polarizzante”: o con loro o contro di loro, non esistono mezze misure, non c’è spazio per dubbi o ripensamenti, non stiamo parlando di alcuni atleti contemporanei buoni per riempire le pagine di riviste di costume, si parla di Caratteri e non caratteristi. Quando Scott/Patton parla alle truppe nella scena iniziale del film queste ultime non vengono mai mostrate: il protagonista è lui, chi siano gli uomini nelle sue mani è un dettaglio secondario. Lo stesso potremmo dire di Knight: con 902 vittorie e 3 titoli in Division I è uno degli allenatori più vincenti di sempre, ma -eccezion fatta per Isiah Thomas – è difficile ricordarsi di giocatori delle sue squadre poi divenuti leggende del parquet, questo perché il duro lavoro, il gioco corale e la tattica sono sempre stati ben sopra l’individualità per il coach degli Hoosiers, come d’altra parte è uso in ambito bellico. Non sarà un caso se durante la sua carriera è stato per l’appunto soprannominato “Il Generale”.

Il campo di battaglia preferito da Knight è sempre stato ovviamente il torneo NCAA, dove ogni partita è decisiva e si gioca tutto sul filo del rasoio, dove la strategia e il carattere prendono il sopravvento su tutti gli altri fattori. Dovendo individuare un singolo momento di perfezione, il suo capolavoro, l’equivalente di ciò che furono le Ardenne per Patton, non possiamo che far tornare la memoria al 22 marzo 1984: ad Atlanta Dominique Wilkins sta già regalando immagini da tramandare ai posteri, ma quella sera dentro l’Omni Coliseum si sfidano la numero #1 dell’East Regional e dell’intera nazione North Carolina e la numero #4 del regional, gli Indiana Hoosiers di Robert Knight. UNC, guidata in panchina da Dean Smith, raggiunge le semifinali del regional con un record di 28-2 (sconfitte giunte con uno scarto totale di 3 punti) e può vantare un quintetto con giocatori quali Kenny Smith, Brad Daugherty, Sam Perkins e tale Michael Jordan, che l’anno successivo firmerà 28 punti di media in NBA e quella stessa estate sarà allenato da Knight ai giochi olimpici conquistando -inutile specificarlo- il metallo più pregiato; dall’altra parte c’è Indiana con un record di 21-8 e i meno memorabili Uwe Blabb, Marty Simmons, Mike Giomi (che due anni più tardi, non riuscendo a risolvere le divergenze con Knight, si trasferirà a N.C. State da Jim Valvano), Dan Dakich e un freshman destinato a riscrivere la storia dell’ateneo, Steve Alford.

Alford e Knight a colloquio

Quando nel pre-partita le porte dello spogliatoio si chiudono è subito un classico Bob Knight in tutta la sua gargantuesca personalità a indirizzare l’incontro ancor prima della palla a due [Parental Advisory Explicit Content]: “ Ok, perfetto, stiamo andando a fare il culo a strisce a North Carolina. E chiunque non sia convinto al 100% che andremo a prendere North Carolina a calci nel culo, beh deve levarsi immediatamente dalla palle”, il linguaggio non sarà quello consigliato ad una serata di gala alle Nazioni Unite, ma non si può storicamente dire che coach Knight non sia stato un incredibile comunicatore e che le sue parole non siano risultate efficienti al momento di guardare ai risultati. D’altra parte è lui stesso, con incredibile charme e sincerità, a spiegarci come “Fuck” sia di fatto la parola più espressiva e duttile dell’intero vocabolario inglese.

Ritornando al pre-partita si passa agli accoppiamenti difensivi: “Alford prenderà Smith, Giomi su Perkins..” e infine, come ricorda lo stesso interessato “si voltò verso di me con un’espressione disgustata e disse: Dakich tu prendi Jordan. Era come se avesse la nausea per quanto in basso era finito il suo programma”. Per la cronaca il programma era finito così in basso da aver vinto il titolo 3 anni prima e ad essere destinato a vincere nuovamente il torneo NCAA altrettanti anni dopo, ma questo è Knight in tutta la sua essenza, prendere o lasciare.

Ma eccoci alla palla a due. Qui possiamo vedere la partita in tutto il suo valore storico:

Come si può vedere l’inizio non è propriamente il migliore possibile per gli Hoosiers e dopo i primi due punti di MJ e un’infrazione di 5 secondi da parte di Indiana la telecamera è già su un Bob Knight in piedi del quale per (s)fortuna non possiamo leggere i pensieri, sicuramente non adatti ad un sermone della domenica mattina. Un’altra infrazione, altri due punti di Jordan e un airball nell’azione successiva sembrano già voler mandare un messaggio sull’andamento della partita; Dakich ricorderà poi:

“Ero talmente teso da pensare che se Michael ci aveva segnato 4 punti in un minuto avrebbe chiuso con 160 punti o qualcosa del genere, ma in realtà non abbiamo mai pensato di non poter vincere. Peraltro ero malato e ho vomitato prima della partita e durante i timeout senza fiatare, il fatto che dall’altra parte Daugherty si lamentasse per un colpo al mignolo rafforzava la mia idea che fossero più deboli di noi”

ed in queste parole è racchiusa molta della mentalità trasmessa da Knight ai suoi giocatori.

Il vantaggio maggiore di Indiana è senza dubbio avere dalla sua un allenatore che ha preparato alla perfezione la partita e che si dimostrerà più lucido nel corso della stessa, come proprio di un grande generale. Dakich inizia a far penare Jordan, a cui gli Hoosiers negano linee di penetrazione e rimbalzi offensivi, limitando il suo strapotere atletico. Il secondo fallo (dubbio) fischiato contro il fenomeno di UNC arriva a 12 minuti dal termine della prima frazione e qui Smith commette quello che possiamo a tutti gli effetti considerare un errore tattico notevole, ovvero toglie Jordan per il resto del primo tempo reagendo con eccessivo panico al primo reale momento di difficoltà della squadra. Indiana può proseguire quindi la partita con più serenità e punire la difesa di UNC trovando con costanza un immenso Alford, sempre nella posizione perfetta una volta che i suoi compagni hanno superato il pressing dei Tar Heels, facendo pagare dazio agli avversari per i loro continui raddoppi con una fitta rete di passaggi: in questo peraltro possiamo notare un cambio di registro da parte dell’attacco di Indiana -abituata alla motion offense e ad un gioco di blocchi e tagli- che sottolinea l’eccelso lavoro di preparazione svolto da parte del loro coach.

Dakich in marcatura su Michael Jordan

Ad inizio secondo tempo Knight si ritrova in una situazione simile a quella affrontata da Smith precedentemente, quando viene fischiato il quarto fallo (anche questo dubbio) ai danni di Dakich [nel college il limite è di cinque, ndr] e ancora molti minuti devono morire sul cronometro: Knight in un suo usuale cambio di registro decide di dare fiducia al ragazzo di Gary, Indiana, lo stesso che aveva guardato con repulsione nel momento dell’assegnazione delle marcature, e Dan risponde rimanendo in campo per ancora molti altri minuti limitando Jordan a 13 punti con 6-14 dal campo, numeri ancor più impressionanti pensando al 2 su 2 dei primi 60 secondi. Patton inizia il proprio monologo in apertura del film con la seguente frase: “ Now, I want you to remember that no bastard ever won a war by dying for his country. He won it by making the other poor dumb bastard die for his country” ed è difficile immaginare questo insegnamento reso immagine cestistica in maniera migliore di quanto abbia fatto coach Knight in quei 40 minuti. Questa passerà giustamente alla storia come la partita in cui “Dakich fermò Jordan” (ma non dimentichiamo i 27 punti con 9-13 di un enorme Alford), tuttavia basta osservare l’incontro e la sua lettura da parte dei due allenatori per rimanere ammirati di fronte ad una notevole lezione di basket impartita da Knight ad un altro dei più grandi allenatori nella storia della pallacanestro, Dean Smith.

Solo due giorni più tardi gli Hoosiers andranno a perdere contro una non irresistibile Virginia, d’altra parte è sempre stato credo comune che Knight fosse battibile pressoché solo nelle seconde partite del week-end, quando il tempo per preparare il piano gara è inevitabilmente minore: dare tempo a coach Knight vuol dire permettere di organizzare perfettamente il piano tattico della partita ad una delle menti più brillanti mai sedutesi sulla panchina di una squadra di basket, come insegna la gara contro UNC. Come ogni sconfitta quella contro i Cavaliers distrugge Knight che immediatamente dopo la sirena finale aveva già dimenticato il risultato ottenuto contro i Tar Heels, benché ne fosse il suo principale artefice. Non c’è spazio per le celebrazioni nella rincorsa alla perfezione: la sconfitta non è mai riuscita ad essere contemplata ed accettata dal coach degli Hoosiers, la cui convinzione è che con la giusta preparazione e la collaborazione dei giocatori nessuna partita possa essere persa, che in un mondo perfetto si possa sempre vincere. Come diceva il mai dimenticato Al McGuire parlando di lui: “Bob è convinto di poter batter il gioco della pallacanestro, anche se questo è impossibile. La sconfitta prosciuga la sua anima come non ho mai visto fare con nessun altro allenatore”. Dopo una partita persa è capace di stare anche per due o tre giorni chiuso in sala video a riguardare ogni azione centinaia di volte, senza dormire e mangiare, in cerca del perché di qualcosa che non riusce a spiegarsi: il fallimento, l’errore, la caduta.

“Americans play to win all the time. I wouldn’t give a hoot in hell for a man who lost and laughed […] the very thought of losing is hateful to Americans.”

Tutto ciò è ancora più comprensibile ed affascinante se pensiamo a come Knight sia stato l’ultimo, nell’ormai lontano 1976, a guidare una squadra dal record perfetto (dopo una stagione da 31-1) che vedeva tra le sue fila giocatori quali Quinn Buckner, Scott May, Kent Benson e Bob Wilkerson che, sebbene passati all’immortalità cestistica, non si può certo affermare formassero il gruppo più talentuoso visto negli ultimi 40 anni di NCAA. Tuttavia quel gruppo aveva una cosa nella quale era probabilmente il migliore di sempre, ovvero nel giocare come una squadra, una vera e propria armata: il pressing difensivo (guidato dai mastini Buckner e Wilkerson), la dedizione e la precisione su ambo i lati del campo hanno portato una squadra dal talento non strabordante, priva dei vari Walton, Wilkes o Jabbar visti negli anni precedenti nell’imbattibile UCLA di coach Wooden (opposto e complementare a Knight), ad un record di 63-1 nel corso di due anni in cui effettivamente Knight è sembrato poter sconfiggere il gioco del basket, dando un’impressione di supremazia tecnico-tattica mai vista né precedentemente né successivamente. Come un Icaro dei nostri tempi Knight si è avvicinato al sole, ma non ne è rimasto bruciato, anzi, ha potuto poggiare, seppur per pochi istanti, i piedi sul suo suolo senza rimanerne bruciato ed ammirare dall’alto il risultato della perfezione.

La vita però non sarebbe tale senza i suoi picchi negativi a far da contraltare ai grandi momenti di successo e tornando al nostro parallelismo iniziale se il generale Patton a sessant’anni morì per un “banale” incidente automobilistico con addosso ancora l’amarezza per i mancati incarichi ricevuti durante la Guerra del Pacifico, toccando in tutti i sensi il punto più basso e terminale della sua esperienza terrena, sempre a sessant’anni, età significativa nella vita di un uomo, anche Knight raggiunge il momento più basso della sua carriera e -di conseguenza per chi ha fatto del basket la sua ragion d’essere- della sua vita: Myles Brand, allora preside dell’Indiana University, decide infatti di licenziarlo in seguito ad accuse da parte dell’ex giocatore Neil Reed il quale afferma di essere stato preso per la gola dal coach durante un acceso scambio di opinioni nel 1997, versione che Knight da parte sua ha sempre negato. Non sapremo mai chi abbia affermato il vero, sebbene il temperamento del “Generale” renda l’episodio piuttosto realistico (non stiamo parlando di un santo se non si fosse capito), ma ciò che più conta è che dopo 29 anni e 3 titoli Bob Knight e Indiana non sono più sinonimi. Ci saranno ancora gli anni a Texas Tech che lo porteranno al record di vittorie in Division I superando proprio Dean Smith, ma non possono che essere considerati un capitolo minore di un’incredibile storia.

Hard times

Tuttavia il valore di un uomo e ancor di più di una guida, sportiva e non, si valuta anche dall’eredità che lascia, dal valore di chi abbandona il binario da lui costruito per prendere la propria strada: se a livello di giocatori di basket dati all’NBA Bob Knight non è stato ai livelli, ad esempio, del nostro contemporaneo John Calipari (col quale non sono mancate polemiche in passato) lo stesso non può dirsi dei risultati accademici dei suoi atleti e dell’eredità lasciata a livello di uomini e allenatori, dove naturalmente spicca con gambe, busto, spalle e testa sopra a tutti la sua ex guardia di origini polacche, nonché suo assistente ad Indiana nella stagione 1974-1975, Michael William “Mike” Krzyzewski, per tutti Coach K. Il 15 novembre 2011 Bob Knight sta commentando per ESPN la partita tra Michigan State e Duke che, vinta dai Blue Devils, consegna proprio all’ex guardia di Army il titolo di allenatore con più vittorie in Division I con il vertiginoso numero di 903, superando lo stesso Knight. Il primo ad abbracciare e scambiare parole con lui al termine di quello storico incontro è proprio Knight, il cui ruolo nella vita di Krzyzewski è sempre stato sottolineato ed esaltato da quest’ultimo.

Il colloquio tra i due a bordo campo rimanda fortemente a quello avuto dagli stessi protagonisti negli spogliatoi della Reunion Arena di Dallas 25 anni prima, il 31 marzo 1986, al termine della finale persa da Duke contro la Louisville di Pervis Ellison: Knight, che in una situazione simile sarebbe stato il primo degli inconsolabili, voleva comunque a tutti i costi essere lì ad aiutare il suo ex giocatore a superare un momento difficile in quelli che erano gli inizi della sua carriera ai massimi livelli e fu il primo a parlare con lui, complimentandosi per il risultato ottenuto e il primo viaggio alle Final Four, cercando di rendergli meno pesante ciò che lui ha sempre vissuto come un fardello insostenibile. La storia è poi stata scritta e a quella prima finale per Krzyzewski ne sono seguite -ad oggi- altre sette con quattro titoli, svariati ori con Team USA e, come detto, il record di vittorie in Division I: il suo mentore per una volta nell’essere superato può vedere non una sconfitta, ma l’ennesima vittoria della sua carriera.

L’allievo che supera il maestro: l’abbraccio tra Knight e Coach K dopo il record di vittorie di quest’ultimo

Milioni sarebbero gli episodi (come questo, ormai entrato di diritto nella storia del basket), i video e i ricordi delle sue imprese da riportare, talmente tanti da riempire diversi libri, figuriamoci un misero articolo. Quello che rimane immortale è però il suo spirito, la sua personalità: tutt’oggi quando commenta per ESPN o esprime una sua opinione su qualsivoglia argomento Bob Knight è un uomo che va controcorrente, ma non per moda o per fare il personaggio, ma perché sa esprimere solamente ciò in cui crede fermamente e di solito non è ciò che esprimono i benpensanti che parlano in televisione. Talvolta potrà sembrare un po’ antiquato o eccessivamente intransigente, ma come detto in apertura non potrà mai essere apprezzato dalla maggioranza delle persone (giornalisti in primis: provate a cercare articoli “agiografici” su Wooden o Coach K, poi fate lo stesso con Knight e guardate le differenze) perché è lo specchio di come l’America più profonda ha sempre cresciuto i propri figli ma che, perlomeno di facciata, rifugge: un paese in cui la sopraffazione dell’altro, il predominio e la vittoria sono al centro dell’esistenza, con la differenza che quando questi aspetti vengono portati su un campo da basket vengono visti come eccessivi, mentre van più che bene per quel che concerne la vita politica e quotidiana del paese, dove un ragazzo di 20 anni viene con orgoglio reclutato fuori dai grandi magazzini, ma si grida allo scandalo se un allenatore di pallacanestro impreca dietro a quest’ultimo.

Un incredibile tattico e uomo di basket, una persona compassionevole, intelligente e sensibile, al contempo specchio di una mentalità forse per alcuni disprezzabile, ma che ha portato una nazione con una manciata di anni di storia sul tetto del mondo, Bob Knight è un uomo complesso e spesso dicotomico, non ascrivibile a facili etichette.
Chi lo conosce bene dice che nessuno è un amico più fedele di quanto non lo sia lui, eppure al contempo chi gli sta intorno è cosciente della sua abilità nel causare dolore negli altri. E con quell’ “altri” spesso si intende proprio lo stesso Bob Knight, il quale rifugge le persone che più tengono a lui perché non si considera meritevole del loro affetto e spesso sembra comportarsi in certi modi proprio per avvalorare la sua tesi. Non solo un allenatore, ma anche una delle figure sportive umanamente più interessanti degli ultimi cinquant’anni, il figlio dell’Ohio è tutto ciò che abbiamo visto e molto di più: un peccatore che si può apprezzare solo essendo suoi fedeli, un fragile generale di ferro, un vincente tormentato dall’idea della sconfitta, coerente e discordante allo stesso tempo.

Questo è stato, è e sempre sarà, Robert Montgomery Knight.

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