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Hall of Famer

Il centro che veniva da un altro pianeta

In una Lega costellata di personaggi particolari ed eccentrici, un posto tutto suo se lo merita un giocatore che ha attraversato un paio di decadi sui parquet non solo statunitensi ma anche europei. Il protagonista di questa storia è l’inimitabile Darryl Dawkins, uno dei più potenti schiacciatori che la NBA abbia mai visto nonché, allo stesso tempo, uno dei simboli di potenziali promesse che non riuscirono mai a sbocciare del tutto.

Nato ad Orlando l’11 Gennaio 1957, il piccolo Darryl si avvicinò ben presto alla pallacanestro, forte di un fisico scolpito che aveva ricevuto in dono da Madre Natura. Alto poco più di 2 metri e 10, massiccio al punto da assorbire bene in contatti, alla high school Dawkins non aveva rivali. Vinse il titolo statale nel 1975 rivelandosi uno dei migliori liceali di sempre.

Con grande beffa di molte università pronte ad accaparrarsi i suoi servigi, Darryl decise di andare direttamente nella Lega, saltando la tradizionale fermata intermedia del college. In quei tempi tale pratica non era ancora così diffusa come lo sarebbe stato una ventina di anni dopo, ma Dawkins decise di seguire le orme di un altro giovanotto che aveva fatto la stessa trafila pochi mesi prima, tale Moses Malone. Il destino dei due si sarebbe incrociato nuovamente qualche anno più tardi.

Al Draft 1975 Darryl Dawkins venne selezionato con la quinta chiamata assoluta dai Philadelphia 76ers, che provenivano da diverse stagioni negative, ivi compresa quella, divenuta ormai leggendaria, delle 9 vittorie a fronte di 73 sconfitte, peggior record ogni epoca nella storia della Lega. Circondato da enormi aspettative, il giovane centro tuttavia marcì in panchina per una buona parte delle sue prime due stagioni da professionista. Anni dopo, il diretto interessato avrebbe così commentato i tanti DNP-CD ed i pochi minuti a disposizione: “Quando sono arrivato nella NBA, volevano che diventassi Wilt Chamberlain. Senza aver mai giocato un minuto al college. Non potevo esserlo. Wilt era pure più alto di me”.

L’occasione giusto arrivò durante i Playoffs del 1976. Forte del nuovo arrivato dai capelli afro, Julius Erving, i Sixers fecero strada nella postseason, arrivando sino alla Finale contro i Portland Trail Blazers. Philadelphia aveva ammassato una grande quantità di talento accanto al Doctor, venendo indicata, a ragione, come la favorita d’obbligo della vigilia. Il minutaggio di Dawkins aumentò esponenzialmente, e, con esso, le occasioni in cui riusciva a mettere in mostra le proprie abilità. I 76ers andarono avanti 2-0 nella serie ma, sul finire del secondo incontro, ecco il fattaccio. Dopo una lotta a rimbalzo tra Darryl e Bob Gross si accende un parapiglia a causa, probabilmente, di qualche parola di troppo. Il nostro cerca di colpire Gross ma, nel tentativo, prende in pieno il proprio compagno Doug Collins. Immediatamente sul centro di Phila si avventa l’enforcer di Portland, Maurice Lucas, che invita “caldamente” l’avversario allo scontro fisico. I due si mettono in posizione di guardia come due pugili e, per qualche interminabile secondo, sembrano pronti a combattere come se fossero su di un ring. L’arrivo dei rispettivi compagni evita guai ben peggiori, nondimeno entrambi vengono espulsi e sanzionati. In gara-3, in un ambiente elettrico, Lucas, con un colpo decisamente ad effetto, prima della palla a due offre le proprie scuse a Dawkins, che era invece pronto ad un’altra battaglia. L’effetto psicologico di tale gesto riscuote grandi dividendi, i Blazers non si guardano più indietro, vincono quattro partite di seguito e si laureano campioni NBA. Era svanita una grande occasione.

Negli anni seguenti, il peso specifico di Darryl all’interno della squadra crebbe a dismisura. Nel corso della stagione 1978-79 il front office di Philadelphia effettuò una trade che aveva, tra gli altri effetti, quello di procurargli lo spot di centro titolare al fianco di Caldwell Jones. L’annata migliore fu, molto probabilmente, quella seguente, che lo vide chiudere con quasi 15 punti di media e 8,7 rimbalzi ad incontro, cifra che non avrebbe più raggiunto in seguito in carriera. La squadra, dopo due anni di astinenza, ritornò alle Finals, dove avrebbe affrontato i Los Angeles Lakers guidati da un rookie di nome Magic Johnson. Dawkins, da par suo, dovette misurarsi contro un avversario di un certo prestigio, Kareem Abdul-Jabbar. Per anni si sarebbe sognato tutti quegli sky hook che finivano, immancabilmente, a canestro nonostante i suoi vani tentativi. Lo sforzo collettivo dei 76ers, così come l’infortunio di Kareem, non bastò: 4-2 e Lakers campioni, con, contestualmente, seconda sconfitta all’ultimo atto per Darryl. Il titolo non voleva proprio saperne di arrivare.

Se sul parquet si era intravisto con più regolarità qualche lampo di talento, fuori dal campo Dawkins era diventato immarcabile. Gli fu affibbiato il soprannome di Chocolate Thunder e l’autore di tale nickname fu, addirittura, Stevie Wonder, il famoso cantante cieco. Presenza fissa alle partite, Stevie aveva sempre al suo fianco un accompagnatore che gli forniva la cronaca in tempo reale. Fu così che, senza di fatto mai vederlo, coniò le due parole che avrebbero accompagnato Darryl per tutta la vita e che riunivano assieme il colore della pelle e le prodigiose schiacciate di cui era capace.

Già, le schiacciate. Tramite questo fondamentale del gioco Dawkins si fece un nome e, soprattutto, fece il giro del mondo nel corso della già citata stagione ’79-80. In una gara contro i Kansas City Kings, Chocolate Thunder schiacciò così violentemente il pallone da distruggere in mille pezzi il tabellone e rischiando di ferire l’avversario che gli si era parato innanzi, Bill Robinzine, in una sequenza divenuta ormai celebre. La sua lingua lunga e spesso divertente inventò il nome forse più lungo mai attribuito ad un gesto atletico: “The Chocolate-Thunder-Flying, Robinzine-Crying, Teeth-Shaking, Glass-Breaking, Rump-Roasting, Bun-Toasting, Wham-Bam, Glass-Breaker-I-Am-Jam . Pressappoco la traduzione è “La schiacciata-Tuono di Cioccolata vola, Robinzine che piange, i denti che stridono, il vetro che si rompe, il sedere che brucia, le chiappe che si tostano, wham-bam, il rompitore-di vetri che sono”. Nonostante gli ammonimenti, un mese dopo l’evento si ripetette contro i San Antonio Spurs, con il canestro completamente divelto. Il Commissioner intervenne personalmente garantendogli una sospensione in caso di nuovo caso di distruzione del tabellone. Nondimeno, vennero rapidamente adottati i canestri sganciabili. A suo modo e nel suo piccolo Dawkins aveva influenzato il cambiamento del gioco.

In certe sue affondate Chocolate Thunder era, in un’epoca non disseminata di grandi atleti, un alieno in mezzo agli umani. Tale affermazione, tra l’altro, il ragazzo da Orlando la prese decisamente alla lettera. In un’altra delle sue memorabili interviste, dichiarò di provenire dal pianeta Lovetron, verso cui si recava durante ogni offseason per praticare“interplanetary funkmanship” ed intrattenersi con la sua ragazza, tale “juicy Lucy”.

Con questa andatura crescente fuori dal campo e contestuali problemi di droga, le potenzialità di Dawkins rimasero tali, col giocatore incapace di far fruttare le proprie notevoli doti per l’arco di 48 minuti e di 82 gare di regular season. Arrivarono anche i primi problemi fisici, che lo costrinsero ai box per diverse partite. I Sixers, nel frattempo, non ebbero particolare fortuna nei Playoffs. Nel 1981, sopra 3-1 in Finale di Conference, si fecero rimontare per poi perdere alla settima partita contro i Boston Celtics di Larry Bird. L’anno successivo, altra Finale ma ennesima sconfitta, sempre contro i Lakers e sempre per 4 a 2. Era arrivato all’ultimo atto per la terza volta in carriera, senza però vincere il benedetto titolo. Non avrebbe avuto più altre occasioni.

Stanca di perdere, la dirigenza di Philadelphia decise di imbastire una serie di trade che cambiarono il volto della franchigia. Da Houston arrivò proprio Moses Malone, Dawkins venne invece ceduto ai New Jersey Nets in cambio, sostanzialmente, di nulla. Dentro di sé, covava tanta rabbia per quanto successo, gli piaceva stare in Pennsylvania e non poteva accettare uno scambio di tale genere. Non deve essere particolarmente piaciuto il fatto che, al primo tentativo, Moses riuscì a guidare i Sixers verso la Terra Promessa, vincendo il titolo 1983 e schiantando Jabbar, la vecchia nemesi di Darryl. Era riuscito, subito, laddove Chocolate Thunder aveva sempre fallito.

Nella stagione ’83-84 Dawkins stabilì sia il primato personale per punti, 16,8 di media, sia quello ogni epoca di falli commessi in una singola stagione, ben 386. Nei Playoffs, tuttavia, si prese un enorme rivincita e soddisfazione. Al primo turno i Nets si trovarono accoppiati proprio contro i 76ers campioni in carica e desiderosi di bissare il successo dell’anno precedente. In una delle serie più pazze di sempre, New Jersey vinse 3 gare esterne su 3, aggiudicandosi la serie per 3 a 2 e gettando nello sconforto i tifosi di Phila. Darryl era raggiante, pensava che giustizia fosse stata fatta. Purtroppo di altre gioie non ne avrebbe avute in carriera. Minato da tanti infortuni, soprattutto alla schiena, saltò svariate gare negli anni seguenti, passando contestualmente anche dagli Utah Jazz e dai Detroit Pistons. Nonostante alcuni tentativi di rientro, nel 1989 a 32 anni giocò la sua ultima gara nella NBA.

Finita l’avventura negli States, Dawkins venne a giocare in Italia, dove comunque, a dispetto di età, chilometraggio ed usura, ebbe ancora alcuni lampi di talento. La sua prima squadra fu Torino, nella quale soggiornò per due anni con una promozione in A1. Quindi fu la volta di Milano, dove tuttavia l’esperienza non fu esaltante. L’esperimento del centro pesante non piacque a tal punto al suo giovane allenatore che questi decise di evitarne in futuro un uso sistematico. Quando una dozzina di anni dopo si ritrovò su di una panchina NBA, il coach di Darryl di allora, Mike D’Antoni, a Phoenix si ricordò di quegli anni ed ebbe una certa fortuna per alcune stagioni. Infine, Chocolate Thunder svernò per due stagioni a Forlì, dove, nel 1994, tirò con la curiosa cifra dell’89% dal campo. Dopo esser passato dagli Harlem Globetrotters e dalla D-League, il poderoso Darryl Dawkins decise di appendere gli sneakers al chiodo.

In anni recenti, l’ex centro dei Sixers ha avuto un certo successo come allenatore nella USBL, vincendo due titoli, nel 2001 e nel 2004. Nominato ambasciatore della Lega, è una faccia ben nota all’interno dell’apparato NBA, comparendo in molte manifestazioni anche a livello internazionale. Ancora oggi, nonostante non abbia mantenuto proprio tutte le attese della vigilia, viene ricordato con rispetto dai colleghi, più giovani e non. Lo stesso Shaquille O’Neal lo ha indicato come “padre putativo” in quanto a schiacciatore, in virtù di quelle devastanti dimostrazioni di forza che si abbattevano su avversari e canestri. Anche perché, schiacciate come la “Cover your Head”, la “Look out Below” o la “Spine-Chiller Supreme” ancora oggi farebbero la loro degna figura.

Alessandro Scuto

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